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La sovranità del limite. La questione della giustizia in Alain Supiot

Mauro Cascio di Mauro Cascio
10 Giugno 2021
in Cultura, La Biblioteca Repubblicana
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Chi non cerca il limite in sé è condannato a trovarlo fuori di sé. Se si dovesse sintetizzare l’ultimo lavoro di Alain Supiot, La sovranità del limite (una splendida edizione italiana pubblicata da Mimesis e curata da Andrea Allamprese e Luca D’Ambrosio), lo si farebbe così. E limite è anche legge. Se la mia libertà è quella di dispiegare me stesso (che non vuol dire fare quello che voglio, a capriccio: la mia libertà non mi consente per esempio di essere una scopa o un lampadario, se non lo sono), la giustizia è la volontà costante e perpetua di rendere a ciascuno quel che gli è dovuto. E a ciascuno il suo limite. «Nella lingua Beti del Camerun la parola che significa giusto (sasôô) viene dal verbo soussou, che vuol dire saltare, sormontare un ostacolo. Perciò, come rileva Jean-Godeffroy Bidima […] la giustizia (così definita) è quello che permette alla società di aprirsi un passaggio nell’intrico di significati. Essa permette agli individui che stanno litigando, oppure scambiando, di aprirsi un passaggio gli uni verso gli altri».

La questione della giustizia è ineliminabile, non ne possiamo fare a meno, ne dobbiamo dare una definizione, ne dobbiamo trovare una collocazione nella nostra idea di mondo. Ma è anche una questione insolubile, cioè ci rimane in mano come problema radicale, perché, a considerare la sua scienza con quella neutralità assiologia che i giuristi vorrebbero (senza cioè ‘sistemi’ filosofici à la Hegel), “non è riducibile all’applicazione di una norma quale che sia, poiché nella nostra tradizione giuridica essa è la ‘madre delle leggi’”. «Principio metagiuridico, la giustizia è stata spesso rappresentata sotto forma di una dea (oggi di una Idea) di cui i giuristi sarebbero i sacerdoti».

E a proposito della Poiesis della Giustizia e della sua rappresentazione poetico-religiosa non possiamo trascurare l’opera di Pietro Piacentino (1130-1192). «Piacentino, che sostiene di aver scoperto il Tempio della Giustizia mentre passeggiava in campagna, lo descrive così. Al centro siede la Giustizia, che esprime dignità ma anche tristezza. Porta sulla testa la Ragione dallo sguardo penetrante, e tra le braccia l’ultima figlia, Equitas, dal volto pieno di bontà, che si sforza di equilibrare i piatti della bilancia tenuta da sua madre». È circondata da sei virtù civiche. (1) Innanzitutto la Religio consistente nell’omaggio e nel culto alle “cose sacre”. La cosa sacra, beninteso, è la ragione fondativa stessa, per esempio la Costituzione della Repubblica Romana, i primi articoli della Costituzione Italiana, quanto eleva il principio della dignità umana. La Religio non va confusa con il “sentimento oceanico” descritto da Freud: non riguarda il privato e il foro interiore, bensì il pubblico e il foro esterno. (2) La Pietas, filiale e patriottica. (3) La Gratia, la virtù consistente nel ricordare i servizi ricevuti nella Città e nel restituirli. (4) La Vindicatio, da non tradurre come ‘vendetta’, perché il verbo latino vindico equivale all’inglese to vindicate: reclamare giustizia. (5) L’Observantia, la deferenza che si mostra a persone superiori in merito e in dignità. (6) La Veritas. Verità, certo, ma anche lealtà.

La tendenza contemporanea del diritto, chiosa Supiot, è quello di darsi semplicemente come oggetto. Anche questo è un grave errore di chi non accetta un’architettura dei saperi e pretende che le scienze dello Spirito siano isolate l’un l’altra. Il diritto oggettivo che semplicemente sta è una cosa che non è a capace, in quanto a stare, nemmeno di stare in piedi e che dipende dai capricci e dalle convenzioni a cui si appoggia per non cadere. E già dire così significa ammettere che il diritto è sempre soggettivo, le condizioni sono spesso singolari e si danno una condizione data, cioè in un momento storico del determinarsi dello Spirito. Già Michel Foucault aveva osservato la connessione tra istituzioni e soggettività. Non ci può essere una rigida contrapposizione: le istituzioni devono essere fatte di soggettività. Ma Vico e Montesquieu hanno fatto di meglio, perché sono stati più attenti a non ridurre il tutto a schemi formali, esterno ai soggetti. Il diritto è di chi lo partecipa. La sostanza del diritto è la morale. Lo schema formale esterno ai soggetti è la dittatura. L’istituzione vissuta dai soggetti la Repubblica.

Mauro Cascio

Mauro Cascio

Mauro Cascio si è laureato in Filosofia a La Sapienza di Roma. Ha organizzato numerosi eventi culturali in Italia e all'estero, dalla Biblioteca del Senato al Pembroke College dell'Università di Oxford, attività grazie a cui ha vinto il Premio Nazionale di Filosofia nel 2013. È curatore di numerosi saggi, nonché prolifico autore. Al suo penultimo libro, «Davanti alla fine del mondo» si è ispirato il cantautore Roberto Kunstler per il suo omonimo lavoro. È coordinatore di direzione de La Voce Repubblicana e cura ogni anno l'Almanacco Repubblicano

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