Io non sono una persona seria. Sono uno, per dire, che la sera non guarda i programmi di approfondimento politico ma i vecchi film di Franco e Ciccio. Sono uno che il mercoledì si compra ancora Topolino, che persino mio figlio si vergogna. Eppure noi lettori di Topolino conosciamo un personaggio che ci aiuta a capire il tempo presente più di ogni programma alla televisione. Questo personaggio è Dinamite Bla. Dinamite Bla è stato disegnato per la prima volta in America negli anni Sessanta e rappresentava il montanaro sempliciotto, chiuso nella sua vita quotidiana e poco propenso ad accettare le novità che all’epoca andavano veloci: si era, come adesso, in un’epoca in un cui lo spirito aveva rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare. In Italia è stato introdotto più di recente, una ventina di anni fa, più o meno con gli stessi tratti. È un contadino solitario dalla lunga barba bianca e il cappellaccio a falde larghe che vive in Calisota, dove sta Paperopoli per intenderci, in una località che si chiama Cocuzzolo del Misantropo. La sua vita è tutta tra i suoi animali e il suo orto, tra le melenzane e le rape e quando qualcuno viene a minare questa tranquillità, tipicamente Paperoga per esempio o Paperino, Dinamite Bla è sempre ben disposto a cacciarli via con il suo archibugio caricato a sale. Piccola parentesi, noi cresciuti negli anni Ottanta abbiamo vissuto il mito delle armi caricate a sale e, non essendoci Internet e non avendo cacciatori veri a cui chiedere, a me è sempre rimasto il dubbio che fosse un che di poetico, quello che vedevo nei film o nei cartoni animati. Invece pare sia davvero possibile, non uccide e fa un male cane. Chiusa parentesi.
Perché Dinamite Bla? Che cosa c’entra? Dinamite Bla è il modello, l’esempio epico, l’archetipo, cioè il tipo originario, della soggettività moderna. Il soggetto, l’individuo è questo. Non si dà in esperienze e relazioni. Non è interessato a prestiti culturali, incontri. Non si mette in gioco. Ma si concentra su quanto per lui ha davvero valore: le sue melanzane e le sue rape. E guai a varcare il recinto della sua privacy. È sempre pronto a sparare, e sappiamo che il sale sul fondoschiena fa male per davvero. Ma che cos’è il soggetto? In base a cosa ci definiamo un soggetto? Istintivamente deve essere qualcosa che ha a che fare con il mio corpo. Io sono questo peso, e me ne vanto. Io sono questa età, e qua me ne vanto di meno. Ma questo non ci basta, è una definizione che non ci soddisfa. Perché ci frantuma. Quale parte governa le altre? Dov’è la regia? Il sentimento ha base empirica, è materiale? Lo posso toccare? C’è una gerarchia delle emozioni? Insomma, a immaginare di definirmi da qui, a dirmi Io da qui, la frustrazione è assicurata.
Il mio ultimo libro si intitola Il Fulmine della Soggettività. Attraversamenti hegeliani dall’infinita periferia (Morlacchi editore). Questa infinita periferia che risuona nel sottotitolo è un termine hegeliano che ci restituisce questa idea dell’io come un sacco, in cui ci metti dentro cose a caso. E a furia di metterci dentro cose a caso, non sai dire che sacco sia. In esergo al volume c’è questa condizione dell’uomo che non sa definirsi, che non sa chi è. Dinamite Bla che sa di sé a partire dalle sue rape. La citazione in apertura al volume è la voce fuori campo in Knight of Cups, un film di Terrence Malick, tratta dal Canto della Perla, una composizione del primo o secondo secolo dopo Cristo, che vale la pena riportare: «Ricordi la storia che ti raccontavo quando eri piccolo? La storia del giovane principe, del cavaliere mandato da suo padre, un re dell’oriente, ad occidente, in Egitto, per trovare una perla, una perla dagli abissi del mare. Ma quando il principe arrivò, gli diedero da bere in una coppa che gli portò via la memoria. Si dimenticò di essere il figlio del re. Si dimenticò della perla. E cadde in un sonno profondo. Il re non aveva dimenticato suo figlio: continuò ad inviare missive, messaggeri, guide. Ma il principe non si svegliava. Figlio mio, sei proprio come me. Non riesci a comprendere la tua vita, non riesci a mettere insieme i pezzi. Proprio come me. Un pellegrino su questa terra. Uno straniero. Frammenti. Pezzi di un uomo. Dove ho sbagliato?».
Ecco. Noi siamo questi. Non riusciamo a mettere assieme i pezzi. Siamo stranieri in noi stessi. Prigionieri del nostro essere frammentati. Eppure, in questa “infinita periferia”, qualcosa, come un fulmine, ci rischiara. In copertina c’è un’immagine di Alexandre Antigna, L’Eclair in cui il lampo illumina per un attimo dalla finestra un intimo familiare, che riusciamo finalmente a distinguere, altrimenti sarebbe buio. È lo spirito che si agita in noi. Quello che Hegel chiama lo spirito soggettivo. Tutto quello che non ci viene semplicemente dato da fuori, o quello che noi ci limitiamo a ricevere fuori. Ma qualcosa che comincia quando il contenuto della sensazione viene colto dalla nostra attenzione. Quando io mi soffermo su un oggetto, isolandolo da un fiume interrotto, questo intrattenere, questo primo appropriarmi, questo far mio, darà via ad un’attività, spirituale che è caratteristica della mia intelligenza. Io ho intuizioni, le rappresento. Con le immagini interviene il ricordo, e io divento padrone di segni e simboli, che ho conquistato con l’esperienza del là fuori, ma che adessso sono il gioco mio, non nello spazio e nel tempo oggettivo, ma nello spazio e nel tempo della mia rappresentazione. «C’è in uno spazio interiore, il dove, per il tempo che vogliamo noi, il quando. Il tempo è durata, e dura il tempo della rappresentazione che noi diamo nel nostro insearsi, in questo nostro scivolarci dentro». Con la produzione di segni, l’intelligenza si libera definitivamente della datità dell’intuizione “per entrare nella presenzialità del linguaggio”. Linguaggio a cui è dedicata una parte significativa.
Io ho particolarmente caro questo luogo, perché per me è un crocicchio. Bello questo termine. Crocicchio. Crocevia. Incrocio di strade. Lì dove si intersecano tanti miei interessi. Tutta la parte di cui si occupa il primo capitolo del mio libro riguarda questo farsi del soggetto, questo processo di maggiore consapevolezza che altro non è che Bildung, Formazione, accrescimento di chiarificazione. E uno dei luoghi per un processo di Bildung è la Consulenza filosofica. Una pratica nata negli anni ottanta in Germania con Gerd Achenbach, e che si è affermata ovunque tranne che in Italia. Con best seller di Lou Marinoff, con Ran Lahav e in Italia Umberto Galimberti e Umberto Curi. Ma io mi sono occupato anche di Logica, di Logica hegeliana, con gli studi di McTaggart e Noel, e il Linguaggio, leggerete, è anche una zona limen, in cui agisce un ambito che è legato alla nostra esperienza del mondo, un ambito empirico diremmo, il lessico. Noi il nostro bagaglio lessicale ce lo costruiamo dando un nome alle cose, di tante più cose facciamo esperienza e più aumenta la nostra capacità di dirle. I social in realtà stanno abbassando questa capacità. In un vocabolario di 245mila parole è stato calcolato che un vocabolario base si riduce a circa 6500 e il lessico di un italiano medio è di circa 2000 parole. Minore è la nostra ricchezza linguistica e minore è la nostra capacità di esprimerci, di dire cose, di descrivere situazioni. Lessico dunque. Ma sul lessico agisce il nostro istinto logico. Cioè noi il lessico lo organizziamo con una grammatica, con delle regole. E questo non è qualcosa che ci viene da fuori, è qualcosa che dipende da quello stesso meccanismo ‘spirituale’ che ci rende possibile interpretare il mondo. Quello che la mia interpretazione mi restituisce come soggetto e oggetto, me lo ritrovo nel linguaggio come soggetto e complemento, l’agire mi diventa il verbo, le qualità mi diventano aggettivi, il tempo mi diventa un avverbio. Al linguaggio come espressione di un senso è dedicata peraltro la mia opera letteraria più nota, Davanti alla fine del mondo.
Sin qui quella parte che nella parte dedicata alla psicologia speculativa nella sua Enciclopedia Hegel chiama relativa allo spirito teoretico. Con la volontà lo spirito fa il suo ingresso nel mondo. Ora il soggetto sa rappresentarsi scopi, anche non dati dalla natura, e li sa attuare con il suo agire nella realtà, si particolarizza, entra nell’esistenza finita. È una parte molto importante, perché questo è il terreno della libertà del soggetto e dalle libertà si arriverà alla questione del diritto e della sua legittimità. Si entra nel cuore del problema politico, con un tema che dovrebbe essere caro alla tradizione repubblicana, e che è sempre stato indagato assai poco dal punto di vista teorico, soprattutto negli ultimi tempi. Un repubblicano non è un liberale. Perché sa che la realizzazione del suo spirito soggettivo, il suo pieno dispiegamento, avviene nello spirito e grazie allo spirito resosi oggettivo. I due movimenti in realtà nemmeno esistono come distinti. Lo spirito si oggettivizza dalla soggettività. Così che rimane come guidato, incanalato non da altro, ma da sé. C’è una cattiva lettura di Popper che vuole lo Stato come qualcosa da contrapporre rigidamente al soggetto di diritti e alla libertà del loro esercizio. Ma il soggetto di diritti ha invece nello Stato non solo l’esercizio della sua legittimità ma anche lo spazio assicurato del suo libero agire. Rivendicare solo i diritti, e dirsi solo soggetto, vuol dire non risolvere il limite dell’egoismo da cui siamo partiti, cioè quei compiaciuti orticelli sul Cocuzzolo del Misantropo. Dobbiamo imparare almeno questo: ad essere più Paperoga e meno Dinamite Bla.
Nella foto di apertura un momento della lezione seminariale all’Università di Urbino