Mettiamola così: cosa non funziona nel Pd? Quello che lo rende ormai caratteristico. Cioè vivere in un’Italia che non c’è. Sorvolare sui problemi reali col disincanto di Mary Poppins e occuparsi di cipria. Ma il Pd ha qualcosa in più: non la supertata che scende dal cielo con l’ombrellino, ma la maestrina severa che ti punta il dito. Perché, come ti muovi, è sempre colpa tua. Riescono più digeribili a volte persino le destre, il nonno che a tavola sarà pure impresentabile perché fa le puzzette, ma almeno non ti fa la morale.
Il Pd ha la verità assoluta nel sangue. Sta tutto qui. È predisposto geneticamente. Essendo la fusione a freddo degli eredi dei comunisti, gente abituata a pensarsi come depositaria del Verbo assoluto, e dei cattolici, che del Verbo assoluto da custodire e senza cui non c’è salvezza erano addirittura gli inventori. Dopo la caduta del muro di Berlino, il Pci si è trovato nelle condizioni di dover cambiare anima e nome. Il nome era facile, l’anima insomma. Ai tempi del povero Occhetto la creatura la si chiamò intanto la ‘Cosa’, sicuri che sarebbe diventata un nuovo sole dell’avvenire. Col senno di poi non andò proprio così. Si rinunciava a un partito fatto di sicurezze religiose, e si doveva inventare una Cosa qualsiasi, magari social-democratica, poco compromessa col fallimento di falce e martello. Buttare Marx e citare a vanvera Keynes. Si doveva continuare a costruire ponti verso un futuro utopico. Mistico, lo definiva Arcangelo Ghisleri agli inizi del Novecento. Perché la mistica non è rigore, è vagheggiamento, è un andare alla cieca. Non è sbagliato lo scopo, è sbagliato il metodo. E poi diventa come giocare alla pentolaccia, negli anni cinquanta, quando bendato e col bastone dovevi colpire la pignatta e si menavano fendenti a caso, col rischio di colpire anche gli altri e mai il proprio obiettivo. Negli anni Novanta nacque un Pds con una identità ancora da inventare, con le radici nella storia delle granitiche certezze che però non erano in grado di dare un domani. Era rimasto il “centralismo democratico”, quella “disciplina ferrea, confinante con la disciplina militare”.
Ma è questo il destino della sinistra. Coltivare sicurezze e conflitti. Le ripercorre un agile volume pubblicato da Il Mulino Paolo Pombeni: Sinistre. Un secolo di divisioni. Cos’è la sinistra se non un intreccio di massimalismo e di riformismo che si incontrano, si combattono, si contaminano, a partire dal congresso di Livorno del PSI nel 1921, quando appunto l’idea che la società la si dovesse riformare significò per i più intransigenti che la si volesse lasciare così com’era? Invece il proletariato avrebbe dovuto “ricorrere all’uso della violenza” per la difesa contro le “violenze borghesi”, secondo la nota mozione di due anni prima al congresso di Bologna di Giacinto Menotti Serrati. Insomma i nipotini del Pd ruppero coi socialisti perché convinti che di lì a breve “la stabilizzazione capitalistica precaria avrebbe provocato una crescente radicalizzazione delle masse”.
«Fra marzo e ottobre 1926 usciva la rivista Il Quarto stato, diretta da Carlo Rosselli e Pietro Nenni, che si poneva proprio il compito di rivedere il rapporto tra socialismo e democrazia politica. Ci si assegnava apertamente l’obiettivo di un ‘lavoro di revisione’ dell’ideologia socialista, ‘che è tutto fuori che dogma’, pur volendo rimanenere nell’ambito di una analisi di tipo marxista, come scrisse nel giugno Giuseppe Saragat, spiegando perché il socialismo voleva la democrazia e non per ragioni romantiche. La breve vita della rivista e soprattutto l’evoluzione della situazione internazionale non consentirono che quell’esperienza, pur culturalmente molto significativa, incidesse più di tanto nel rideterminare la questione dei rapporti fra massimalismo e riformismo nella sinistra italiana: non fosse altro perché al momento, con il fascismo imperante e la politica europea ancora in fase conservatrice, parlare di lotta democratica per le riforme pareva piuttosto utopistico».
La ‘società del rancore’ la si inaugurò negli anni novanta. Quella fu l’eredità della questione morale di Enrico Berlinguer. Denunciare il “mancato contenimento delle tentazioni all’avventurismo spregiudicato e degli appetiti di successo”. Una parte consistente della sinistra, quella che non aveva più niente da dire, avendo dovuto mettere in soffitta il suo armamentario ideologico, e avendo poco da proporre sul piano programmatico, prese a fare quello che le riusciva meglio: la predica. Ci si era esercitati con Andreotti, si proseguì contro Berlusconi, per poi dedicarsi all’intangibilità della Costituzione o alla (sacrosanta) denuncia della corruzione (senza rinunciare ad essere corrotti, però), fino a virare sul politicamente corretto e sui diritti lgbt. Ma interpretare solo questo ruolo, ed è quello che è successo, vuol dire poi essere rivoluzionari a parole, senza avere originali capacità di riforma, vuol dire non avere tensioni verso il futuro. Vuol dire inventarsi ponti che non ci sono, perché il proprio destino ormai non porta da nessuna parte, se non nel vuoto riproporre se stessi e il proprio consolidato potere. Ponti inesistenti. Che si credono i migliori.