Il dilemma davanti a cui si trova il governo israeliano è quello completamente inedito di un’aggressione contro la popolazione civile, sanguinosa, più di seicento morti, con ostaggi, un centinaio circa, di diverse età e anche doppia nazionalità. Israele, lo si è visto nel celebre blitz di Entebbe nel 1976, si è sempre preoccupata di dare una risposta mirata, tanto che la tattica difensiva di Hamas è quella di utilizzare ogni struttura di tipo civile per dissuaderla. Gli stessi miliziani di Hamas non sono truppe regolari e potrebbero benissimo tenere gli ostaggi all’interno di un proprio nucleo familiare o comunque di un affiliato, senza contare che possono esserci miliziani di Hamas di dieci, dodici anni addestrati, armati ed operativi. Un quadro simile richiede ad Israele uno sforzo formidabile di intelligence, prima per individuare gli ostaggi, poi per capire come intervenire. Ammesso che Israele riesca a pianificare un intervento tanto complesso, considerando il teatro di azione come la città o la striscia di Gaza, dove possono essere sparpagliati gli ostaggi, resterebbe aperta la questione militare, ovvero colpire successivamente o contemporaneamente i responsabili del blitz de 7 ottobre. Anche questa non una cosa facile, Hamas ha una struttura complessa sia verticalmente che orizzontalmente, in pratica potrebbe trattarsi di 500, 1000 persone di cui rintracciare il ruolo e il livello di partecipazione di ciascuno nelle stragi. Senza contare che ciascuna di queste 100, mille persone potrebbe averne intorno a se altre 10 o 15 completamente innocenti e in questo caso non sarebbe possibile nemmeno un’impresa come quella statunitense a Abbotobad per eliminare Bin Laden. Israele dovrebbe poter ricorrere ad una reazione indiscriminata.
Stiamo sempre ragionando sul piano della liberazione degli ostaggi, la prima preoccupazione per Israele. Potrebbe essere invece che molti ostaggi siano già morti e qualcuno ancora in vita, il che complicherebbe ulteriormente i margini dell’ intervento. Oltre ad individuare gli ostaggi bisognerebbe appurare la loro autentica condizione, rischiando di sprecare energie inutilmente. Sempre che Israele ritenga di avere tutto questo tempo di analisi a disposizione. Magari non ne ha affatto, perché l’opinione pubblica non può aspettare un anno ed è evidente che Hamas ha ancora dei colpi in canna da sparare. Come si comprende questo aspetto della reazione contro Hamas presenta un insieme di difficoltà e purtroppo non sono le sole. L’intelligence israeliana, come quella statunitense a suo tempo, potrebbe assicurare che le ramificazione degli attacchi vanno oltre la Striscia e potrebbero raggiungere ambienti del governo di Stati diversi come complici o persino ispiratori. In questo caso cosa farebbe Israele? Si limiterebbe a liberare gli ostaggi e punire i capi di Hamas o si porrebbe il problema di un intervento su scala più ampia?
Il presidente statunitense Biden, si è detto comprensibilmente preoccupato di un possibile allargamento del conflitto che nella situazione internazionale attuale potrebbe procurare danni enormi. Il presidente Macron ha detto di comprendere le ragioni di Israele ma della necessità di salvaguardare la popolazione civile di Gaza. La comunità internazionale si attende da Israele moderazione, anche per non compromettere completamente il processo di pace avviato. Israele si trova su un pendio tale per cui ogni ammonimento le scivoli di dosso. In quel momento, mai avvenisse, bisognerà dimostrare solidarietà allo Stato ebraico. Adesso, con decini di cadaveri di bimbi fumanti, è fin troppo facile.
Foto Israel Defense Force