L’Istituto per la Storia del Risorgimento ha appena ridato alle stampe con la cura di Guido Pescosolido. il giudizio storico sul Risorgimento, di Rosario Romeo, edito per la prima volta nel 1966. L’opera ha il merito di aver scalfito il peso, nella cultura italiana del secondo dopo guerra, dell’interpretazione dell’epopea esposta da Gramsci nei Quaderni. Gramsci era convinto che il Risorgimento fosse fallito perché non aveva saputo realizzare la riforma agraria. Romeo spiega come questa avrebbe danneggiato e ritardato il processo di industrializzazione del paese. Come si sa, Gramsci non era uno storico professionista e tutto sommato di abbagli sul Risorgimento ne prende diversi e non solo. Secondo Gramsci la Rivoluzione francese, lo scriveva proprio nei Quaderni dedicati al Risorgimento, sarebbe stata frutto di un’alleanza fra “gli operai delle città ed i contadini delle campagne”, tesi risibile che non si realizzò nemmeno nell’Ottobre in Russia e quindi Romeo ebbe gioco piuttosto facile.
Il giudizio storico sul Risorgimento assume ancora oggi un particolare valore sotto il profilo dell’indipendenza di riflessione dal guru del marxismo. leninismo italiano, anche se in verità Gramsci conosceva meglio Dante di Marx, e questo consentì una interpretazione sempre più autonoma e libera della storia patria nelle università italiane. Il testo tornato da qualche settimana in libreria, per quanto resti un capolavoro del genere, lascia qualche dubbio sulla vena ottimistica. L’Italia uscita dal Risorgimento è quella che Romeo avrebbe voluto più che quella che ci si ritrovò davanti. Lo sviluppo impresso dal Piemonte sabaudo al resto del paese, soprattutto al Mezzogiorno, sebbene innegabile in confronto all’eredità borbonica, rimane inferiore a quello impresso proporzionalmente dal solo Murat al regno di Napoli. Per non dire che l’efficienza austriaca del Lombardo Veneto, rimase ineguagliabile anche per i piemontesi. In generale, Romeo non si accorge come l’esperienza napoleonica e persino quella asburgica, creino una discrasia civile ed economica, non solo con la Sicilia borbonica, ma anche con gli Stati della Chiesa. L’amministrazione centralizzata dei notabili piemontesi, non seppe mai distinguere le diverse culture di provenienza, figurarsi le sfumature e tutto sommato, quali fossero le istanze dello sviluppo economico, Gramsci colse l’aspetto della delusione di tutte le attese popolari. Romeo non riuscirà ad inquadrare correttamente il problema repressivo dell’intervento piemontese ed anche garibaldino per certi versi, che poi pure verrà a sua volta represso. Tutto si giustifica con il processo unitario intrapreso, il che è razionalmente giusto, non fosse per le ferite e le tare profonde derubricate semplicemente come “brigantaggio”, “bacia pile”, “reazionari”.
D’altra parte Romeo era davvero convinto che la via nazionale del conte di Cavour fosse l’unica realisticamente percorribile rispetto a quella radicale che affidava non si sa esattamente perché a Garibaldi, che in fondo era uno strumento abbastanza docile nelle mani della famiglia Savoia. La prospettiva giacobina rivoluzionaria era interamente imputabile a Giuseppe Mazzini rimasto un clandestino nel nuovo stato unitario. Accusando invece Garibaldi, non si è mai capito dove Romeo collocasse politicamente Mazzini e infatti non lo colloca, sostanzialmente lo fraintende, tanto da credere che Romeo la pensasse al dunque come Gramsci, per cui nel Risorgimento, l’unica figura rilevante fosse stata quella del conte di Cavour. La sua opera monumentale sul ministro piemontese, del resto, lo dimostra. Resta poi da capire come mai, con cotanto formidabile sviluppo ed eccezionale visione dell’Italia futura, tempo cinquant’anni, la giovane e promettente nazione unitaria si ritrovò interamente schiacciata dai tacchi dello stivale fascista.
museo nazionale del Risorgimento di Torino