Nato in Sud-Corea, ma formatosi in Germania, il filosofo Byung-Chul Han, negli ultimi anni, sta vivendo, qui da noi, un grosso successo editoriale. Proseguendo il suo progetto di riscrittura della mappa concettuale del nostro tempo, con questo che è uno dei suoi ultimi libri (Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, tr. it. di F. Buongiorno, Einaudi, Torino 2023, pp. 88) denuncia gli effetti massicci che la tecnologia digitale, estesasi anche alla sfera politica, arriva a produrre sul processo democratico e sulle nostre vite. La frase in cui si riassume un po’ la tesi che porta avanti è la seguente:«Nel regime dell’informazione essere liberi non significa agire, ma cliccare, mettere like e postare». Sottomessi al regime dell’informazione, noi ci crediamo liberi, autentici e creativi, invece, paradossalmente, è proprio questo presunto senso di libertà a garantire il dominio che viene esercitato su di noi: «gli esseri umani sono prigionieri delle informazioni». Lo smartphone, ad esempio, in quanto è un «dispositivo psicometrico di registrazione» di dati, è un apparato di sorveglianza e di sottomissione che sfrutta proprio questo nostro sentirci liberi. «La tecnica informatica digitale rovescia la comunicazione in sorveglianza: quanti più dati generiamo, quanto più intensamente comunichiamo, tanto più efficiente diventa la sorveglianza». Con il regime dell’informazione, inoltre, siamo ben al di là del regime biopolitico di foucaltiana memoria. Mentre quest’ultimo è interessato ai corpi, su cui esercita la sua «ortopedia disciplinare», il primo, invece, non è interessato ai corpi, ma «si impadronisce della psiche attraverso la psicopolitica». Non solo, ma siamo anche al di là della società dello spettacolo. E ciò proprio perché il regime dell’informazione è una «società della sorveglianza».
Ora, una delle caratteristiche più tipiche del regime cui sottostiamo è data dal fatto che il rapporto di visibilità si rovescia completamente rispetto al passato. A essere visibili non sono più coloro che dominano, ma i dominati, costretti dai precedenti a stare continuamente sotto la luce dei riflettori. Spontaneo viene, a questo punto, il paragone con 1984 di Georg Orwell, visto che anche nel regime di sorveglianza del Grande Fratello vige uno stato di visibilità permanente. Il punto è però che mentre in quest’ultimo la visibilità è imposta, nel regime dell’informazione, del tutto all’opposto, gli esseri umani «si adoperano da sé a procurarsi la visibilità», nel senso che essi la cercano per un bisogno interiore, senza che si dia alcuna costrizione esterna.
Han nota come un’altra caratteristica del regime cui sottostiamo è data dal fatto che esso si appropria delle tecniche neoliberali del potere. Il primo, però, a differenza delle seconde non lavora con obblighi e divieti, ma con stimoli positivi: sfrutta la libertà, invece di sottometterla, guida inconsciamente la nostra volontà, invece di piegarla violentemente. Rispetto al potere coercitivo di una volta, si fa ora strada «un potere smart, che non ordina, ma sussurra, non comanda, ma sospinge, vale a dire, induce con mezzi sottili al controllo del comportamento». E anche gli influencer hanno interiorizzato le tecniche liberali del potere. Essi sono adorati dai follower come delle guide motivazionali e come dei veri e propri salvatori, così che il tutto viene ad assumere un profilo marcatamente religioso. Nel rapporto fra gli uni e gli altri si consuma, infatti, una sorta di «eucarestia digitale. I social media somigliano a una chiesa: il like è il loro Amen. Lo sharing è la comunione. Il consumo è la salvezza».
Visto il suo culto feticistico del “dato”, il regime dell’informazione presenta così un tratto totalitario. Aspira cioè a un sapere totale, raggiunto però non attraverso una narrazione ideologica, ma attraverso l’algoritmo. «Il dataismo vuole calcolare tutto ciò che è e che sarà. Le narrazioni cedono il passo ai calcoli algoritmici».
Ed ecco come la democrazia degenera in «infocrazia». Pensiamo, ad esempio, a quanto la cultura del libro, favorendo la concentrazione, abbia inciso sul processo democratico del XIX secolo. Ora, invece, la mediocrazia spazza via tutto ciò, erodendo la capacità umana di giudizio, frammentando il linguaggio e istituendo un confine labile tra finzione e realtà. La politica si svuota di sostanza e diventa pura e semplice telecrazia dell’immagine, dove quel che conta più di tutto non sono gli argomenti, ma la performance. «In questa infocrazia […] non c’è posto per il discorso», ossia viene a mancare proprio quella razionalità comunicativa che contribuisce alla formazione delle opinioni. Qui, ritorna un’analogia con il Grande Fratello, dove lo schermo di sorveglianza viene sostituito dalla televisione. La differenza sta però nel fatto che noi siamo sottomessi e resi dipendenti da quest’ultima non in quanto controllati, ma proprio in quanto intrattenuti.
Han chiama «razionalità digitale» quella forma di razionalità che, obliando sempre più il momento dell’ascolto dell’altro, procede senza comunicazione, senza discorso. «L’ascolto è un atto politico in quanto unisce gli esseri umani in una comunità e li abilita al discorso: esso istituisce un noi. La democrazia è una comunità di ascoltatori. La comunicazione digitale, in quanto comunicazione senza comunità, annienta la politica dell’ascolto. Così, ascoltiamo soltanto noi stessi». Punto forte della «razionalità digitale» è, come già vedevamo, il «dataismo», il quale crede che solo l’intelligenza artificiale garantisca quello sguardo onnicomprensivo che consente di ottimizzare i processi sociali in vista del bene di tutti. «I dataisti sono convinti che l’umanità disponga, per la prima volta nella storia, di un sapere che permette una conoscenza totale della società».
Vedevamo come nel regime dell’informazione il confine tra finzione e realtà diventi sempre più labile. L’esempio che viene subito in mente è quello delle fake-news, le quali, propriamente parlando, non sono menzogne, ma modi di de-fatticizzare la realtà. La vita della democrazia richiede invece il “parlar-vero”, ossia il coraggio di dire la verità, quella che un tempo si chiamava parresia. «La parresia crea comunità. È essenziale per la democrazia. Dire la verità è un atto genuinamente politico», anzi, «è l’atto politico per eccellenza».
Ma la constatazione amara che va fatta è che questa preoccupazione per la verità, oggi, manca anche alla filosofia, la quale, evitando di appiattire il suo discorso sul presente, dischiuderà a se stessa un futuro solo quando riprenderà a coltivare questo gusto per la verità.
La Verità del Bernini. Foto di Rafael Edwards | CC BY-NC 2.0