Quid est veritas, che cos’è la verità? Certo non qualcosa di oggettivo, che se ne sta lì, indifferente a chi la cerca. Una cosa che puoi trovare e, una volta che l’hai trovata, hai solo tu, come un quadro, una pianta, un orologio a cucù. Non funziona così. La verità è nuda. E noi le mettiamo addosso dei vestiti per accoglierla in società. Ognuno gli abiti che può, quelli della sua cultura. Abbiamo fatto l’errore di credere che una verità fosse il suo outfit, abbiamo fatto gli influencer per venderne una. Quasi dei Khaby Lame dei poveri, (perché, che ti metti a fare? Critichi l’efficacia comunicativa di Khaby Lame?. Certo, gli influencer influenzano al massimo le decisioni di acquisto, non certo il pensiero. Ma stiamo divagando, mannaggia a Khaby Lame. Mi è venuto in mente solo perché ho letto che proprio in questi giorni ha superato in follower la Ferragni. Lo avevano già detto due anni fa, ma i notizioni vanno ripetuti).
Ci ha aiutato in questo (nell’abitare un’idea di verità, non nel bazzicare Instagram) un po’ la filosofia. Ci sono filosofie povere di contenuto e filosofie che quel contenuto lo esprimono. Come l’ossubuco per esempio. Ti mangi la carne, e va bene, ma che senso ha l’osso senza il midollo, che è la parte più buona? Ce lo ha spiegato meglio Luigi Pareyson in un testo fondamentale che si intitolava non a caso Verità e interpretazione. Ci sono filosofie deboli che a mala pena esprimono il loro tempo (e che fatichi anche a chiamare filosofia) e ci sono filosofie che, nell’esprimere il proprio tempo, sono anche una rivelazione della verità. Le prime sono caratteristiche di quelle che Pareyson chiama pensiero espressivo, le seconde sono peculiari di un pensiero rivelativo. «Nel pensiero rivelativo accade così che per un verso tutti dicano la stessa cosa e per l’altro ciascuno dice un’unica cosa: tutti dicono la stessa cosa, cioè la verità, che non può essere che unica e identica, e ciascuno dice un’unica cosa, cioè dice la verità nel proprio modo, nel modo che solum è suo». Può capitare che si insista per tutta la vita a ripetere una cosa che è la nostra interpretazione della verità ma quella ripetizione indica che si è attinto alla verità. Diciamolo meglio: la verità può essere colta solo all’interno di una interpretazione (e la mia interpretazione è legata dalla prospettiva storica in cui sono inserito). L’oggetto ha bisogno del soggetto che lo esprime. Solo gli abiti consentono di vestire la verità, ma la verità non è quel suo singolo vestire. La verità è metastorica, non è presente nel palcoscenico concreto del divenire dello Spirito, e per coglierla la si deve sempre cogliere all’interno di una prospettiva storica, di una interpretazione personale. La verità è rivelativa e sempre plurale. Il destino del pensiero espressivo, quello di una mentalità positivista e materialista (cioè quello scientismo oggi dominante), è quello di rinunciare alla verità e di accettare una funzione esclusivamente strumentale, pragmatica, tecnica del pensiero.
«Rivelare la verità non significa né conoscerla tutta, mediante la rimozione di un velo che ne impedisca la visione completa, né coglierne semplici parti, di cui desiderare l’integrazione progressiva o lamentare la fatale inadeguatezza. Il pensiero rivelativo raggiunge il suo scopo anche se non giunge al “tutto detto”: il suo ideale non è l’enunciazione compiuta di una realtà più o meno adeguabile, ma l’incessante manifestazione di una origine inesauribile. La verità non si lascia cogliere che come inesauribile e dell’inesauribile non ci può essere che rivelazione, trattandosi non di cogliere la verità una volta per tutte o di deplorare l’impossibilità di darne una formulazione definitiva, ma di trovare un’apertura ad essa, e trarne un barlume o un lampo, che, per quanto fioco o fugace, è estremamente diffusivo, essendo inesauribile la verità che appare».
Ecco perché la filosofia può mettere un freno al dilagante empirismo. Il pensiero empirico certo dà i suoi frutti, questo non è in discussione. Il sistema hegeliano si è frantumato e io posso avere il sapere solo a compartimenti stagni, senza relazione. La filosofia, per ciascuno di questi saperi, degrada a una “razionalità trasparente a se stessa in quanto tecnicamente operante nei singoli ambiti dell’esperienza, cioè ragione conscia di sé ma priva di verità”. Un pensiero vuoto. L’interpretazione, invece, “nell’atto stesso che spiega come una forma storica possa essere un’epifania dell’essere, fonda una realtà che dall’esterno può anche presentare qualche somiglianza con la durata storica, ma che possiede un carattere molto più sostanziale e originario: la tradizione”.
Per descrivere il carattere ermeneutico del rapporto fra la verità e la sua formulazione, Pareyson usa un’immagine molto efficace, quella dello spartito e delle esecuzioni nella musica. «L’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell’esecuzione, la quale per il suo carattere necessariamente personale e quindi interpretativo, è sempre nuova e diversa, cioè molteplice. Ma la sua molteplicità non pregiudica per nulla l’unicità dell’opera musicale: anzi l’esecuzione mira appunto a mantenere l’opera nella sua individualità e unicità, senza aggiungerle nulla di estraneo e senza dissolverla in atti sempre diversi; tant’è vero che essa vuol rendere l’opera nella realtà ch’è veramente sua, vuol essere l’opera stessa, e non soltanto una sua immagine o copia, né una semplice approssimazione, e in ciò consiste il suo carattere “rivelativo”; e vi riesce proprio in quanto esercita un’attività esecutiva, un atto realizzativo, una presa di possesso, che in quanto irripetibile e personale è consapevole della possibilità di altre esecuzioni personali e nuovissime, e in ciò consiste il suo carattere ‘plurale’». La verità, allo stesso modo della musica, non si disperde nelle sue formulazioni ma ne alimenta la pluralità, conservandosi come identica in quanto si incarna in quelle che sanno coglierla e rivelarla.
Foto Annibale Carracci – Allegoria della Verità e del Tempo | CC0