C’è un Rousseau che si agita dentro Rousseau. La scrittura biografica, nella dimensione del dialogo, sfoglia temi, distribuisce frammenti ed è più di una condivisione sterile di tempi a caso, è piuttosto un inseguire una scissione, un sentirsi vulnerabile, “esposto alle contingenze dell’ambiente, del male, del mondo esterno e delle azioni umane, delle patologie della società corrotta, nelle metamorfosi e fluttuazioni dell’identità, nel teatro vitale in cui si appalesano le ‘maschere’ del soggetto”. Un io frammentario che prova a ricostruirsi, una (ri)fondazione resa possibile solo dal raccontarsi.
In Le affezioni dell’anima (Morlacchi), Antonio De Simone con la consueta efficacia ci mostra che l’autobiografia di Rousseau non è qualcosa che sta lì a far colore, non è tassonomia di dati, cifre ed eventi a caso, da prendere e disporre uno dopo l’altro in una successione che chiamiamo tempo. No. C’è sempre un sovrappiù nei testi che è l’orizzonte politico, a costituire la sostanza ontologica della riflessione, e più in generale una ricerca di senso che è inserita nel più complesso intreccio di mondo, vita, storia. Quella di Rousseau è una “svolta”, che data 1764, attraverso soprattutto tre opere, le Confessioni (pubblicata postume tra il 1782 e il 1789), i Dialoghi di Rousseau giudice di Jean-Jacques (composti tra il 1772 e il 1776 e pubblicati tra il 1780 e il 1782) e le Fantasticherie del viandante solitario (a cui lavorò dal 1776 sino alla morte che lo colse due anni dopo). Inquisire se stesso per Rousseau significa ripensare le modalità fondamentali del suo ex-sistere nel tentativo di eccedere la contingenza e di illuminare l’oscurità della vita generica. L’autore, il soggetto, è oggetto a sé, è un “inventore dell’io”, un “costruttore di narrazioni intorno alla vita”, la sua è la storia di un’anima che vive, sente, esprime, i paradossi della modernità. In questo oscillare Rousseau si consuma nel suo testo, si sperimenta altro.
Nei titoli citati troviamo una struttura portante, da una parte la natura, dall’altra la storia. La natura è il topos dell’autenticità originaria, della bontà e della libertà dell’essere dell’uomo. È il luogo deputato del buon selvaggio. La storia è il luogo “del divenire, dell’evoluzione, del contingente, del progresso, della raison e dell’azione devastante del male, tutti processi che spingono alla necessità ‘rassicurante’” del covenant, il “contratto etico-politico per rifondare la libertà civile per l’uomo tra gli uomini”. E anche nell’esperienza vissuta abbiamo continuamente questa contrapposizione, la verità della natura versus la storia. Lo stesso atteggiamento nostalgico per una mitica età dell’oro, annota De Simone, svolge, “nell’economia simbolica e nella pratica mataforologica dell’écriture autobiographique, la funzione di tecnica di ‘rassicurazione’ nei confronti delle forme di ‘insicurezza’ che la storia-della-vita esprime”. L’architettura stessa delle Confessioni è strutturata intorno al mito del paradiso.
Certo, l’autobiografia come genere comporta dei rischi. L’equivoco per chi legge è quello di pretendere di entrare da ospite nel laboratorio di una vita e ritenere si possa leggere qualcosa di interno, la storia di un’anima, la confessione di una quotidianità, l’oggettivazione della memoria. Ma chi scrive ha voluto comunicare la sua politica dell’esistenza, ha “tagliato a fette la carne del suo io”; chi scrive sempre testimonia, attesta, rappresenta. È un prisma di processi mentali, psicologici, culturali, politici, sociali, estetici. Non una macchina che annota fatti accaduti e dati ma la complessità di un io che si mette in scena e si espone. La sua è sempre una metamorfosi, la considerazione di un Sé che tiene traccia di se stesso in un tempo sospeso. Nella coscienza della singolarità, in solitudine, non rimane prigioniero di un solitario solipsismo ma ricerca l’universale della condizione umana. La conoscenza della propria soggettività diventa un modello meta-etico e meta-politico dell’umano. Ecco a cosa serve ritirarsi in solitudine “in un ozio divino, sottratto alla tirannide del tempo e degli obblighi sociali e familiari”. Nel dominio della riflessione si mette tra parentesi la dissipazione della vita sociale, l’individuo “non ha più bisogno di apparire, non dipende più dall’opinione degli altri, che lo squarta e lo tira in tutte le direzioni (e se cede una volta rischia di perdere per sempre se stesso”. È da questo raccoglimento che nasce il desiderio della scrittura autobiografica: “alla rottura della comunicazione egli supplirà con quella comunicazione per rottura che è la ‘presenza letteraria’”.
Se la società è una messa in scena, l’individuo può mettere a nudo la sua autenticità, è questa la sua risorsa e la sua difesa in un teatro dove tutto è falso, dove è diffusa la paura di “perdere terreno nella competizione sociale”. Si preferisce cioè adottare autorappresentazioni socialmente accettate piuttosto che affrontare la ricerca delle proprie motivazioni e della propria identità. Commenta De Simone: «Il risultato di questo modello di evoluzione e riproduzione sociale, in particolare nello stile di vita metropolitano, caratterizzato dalla divisione del lavoro, dalla disuguaglianza sociale, dalla competizione per ricchezza potere e prestigio sull’individuo e sull’intera vita sociale e dall’incentivo alla furbizia, alla capacità di dissimulare e intimidire, sull’invidia e la diffidenza, fa sì che le persone non possano eludere la pressione della competizione». Il loro sé diventa la copia di quello che la società richiede. Il soggetto intraprende una disperata lotta per il riconoscimento davanti a una platea di giudicanti: “la stima dell’opinione pubblica equivarrà alla conquista del prestigio nella considerazione sociale”.
Questa però è anche la radice dell’alienazione. Il desiderio di Riconoscimento, tema che in seguito sarà proprio anche di Hegel in pagine memorabili della Fenomenologia dello Spirito, segna la perdita della felicità naturale, perché la “necessità di corrispondere alle altrui aspettative induce l’uomo in via di socializzazione a costruire un’immagine di sé nella quale l’autenticità naturale è soppiattata dall’apparente, dal fittizio, dal simulato”. Lo sguardo è sempre lo sguardo che corrompe. Siamo agli antipodi della Theory of Moral Sentiments (1759) di Adam Smith. Lì il bisogno di essere guardati è costitutivo della natura dell’essere umano. Vale anche per le ricchezze. Le ricchezze non sono uno scopo, ma un mezzo per ottenere la considerazione altrui. Il soggetto smithiano è “radicalmente incompleto” ha bisogno dei suoi simili per forgiarsi un’identità. L’attenzione è tutta sul ricco, sul potente, mentre il povero “avverte tragicamente che il suo stato di povertà lo pone fuori dalla vista degli altri, in quanto va e viene senza che nessuno lo noti e quando si trova in mezzo alla folla è al buio come nel suo tugurio”. Il sistema della visibilità vuole che le differenze di valore sociale siano visibili, “fissate dalla funzione dello sguardo che apprezza i privilegiati e disprezza gli umili”. Noi siamo in ogni caso incompleti e dall’altro dipende la nostra compiuta definizione. È il tema della modernità che appassiona De Simone che da anni dedica il suo lavoro straordinario alla messa a fuoco della struttura che ci orienta e sostanzia. Il mondo è complesso, fluido e sempre sfuggente ad analisi facili e ad approssimazioni. E noi non siamo mai uno ma sociali, in una vita comune, in una felicità provvisoria sempre in bilico e sempre in discussione, sempre circondata da quegli “abissi vertiginosi” di cui mai possiamo fare a meno.
Foto Rousseau at Wootton – a bust of Rousseau in progress | Chris Bertram | Flickr | CC BY-NC-ND 2.0