Hannah Arendt ci ha dato un’immagine molto efficace: gli esseri umani non cessano mai di iniziare qualcosa di nuovo perché, essendo venuti al mondo all’atto della nascita, sono essi stessi un inizio. La stessa cosa vale per il linguaggio che dice le cose del mondo. Le Istituzioni sono al centro di questo passaggio. «Non è possibile, per gli uomini, anche nelle circostanze più drammatiche, smettere di istituire la vita, di ridefinirne contorni e obiettivi, contrasti e occasioni. Dal momento che è la vita stessa ad averli istituiti, immettendoli in un mondo comune che fa tutt’uno con i simboli che di volta in volta lo esprimono». Questa dimensione simbolica che plasma ed è plasmata dalle istituzioni, non è qualcosa che applichi dall’esterno, ma ciò che anima tutto, quello che lo caratterizza. «Nessuna vita umana è riducibile a pura sopravvivenza, a “nuda vita” secondo la celebre espressione di Walter Benjamin».
Le istituzioni in momenti come quelli che ci siamo lasciati (e speriamo definitivamente) alle spalle sono fondamentali. Questo il pensiero di Roberto Esposito in un libro intitolato, appunto, Istituzioni e pubblicato da Il Mulino. E non solo perché “rispondono al bisogno degli uomini di proiettare qualcosa di sé al di là della propria vita e della propria morte”, ma perché in grado, in qualche modo, di fronteggiare un’emergenza che non è stata soltanto sanitaria ma anche economica, sociale e politica. Ci sono sembrate inadeguate, in qualche occasione persino co-responsabili di quanto accaduto, eppure le abbiamo sempre cercate, invocate, difese, protette. Perché è nella storia della cultura dell’uomo che la società sia conflitto. E l’Istituzione questo deve fare: tenere insieme gli interessi contrapposti, evitando che il conflitto politico degeneri in violenza. «Si pensi per esempio, […] Machiavelli, all’istituto romano del tribuno della plebe, di cui si tratta diffusamente nei Discorsi. Esso, nato dal conflitto politico tra patriziato e plebei, aveva il ruolo di organizzarlo in relazione ai rapporti di forza di volta in volta determinati. Così, diversamente da Hobbes, che riconduce la politica allo Stato, Machiavelli la lega alla dinamica delle istituzioni. Per Hobbes l’unica istituzione possibile e necessaria alla sopravvivenza della società è quella statale. Per Machiavelli, che vive in un paese, come l’Italia del Cinquecento, privo di Stato, le istituzioni politiche, civili, religiose, militari eccedono l’orizzonte statale, lo precedono, ma anche l’oltrepassano. Naturalmente non è facile cogliere la connessione istituente di unità e divisione, ordine e conflitto, che all’origine della politica moderna ha individuato Machiavelli. Resta, al cuore del paradigma istituente, l’enigma di una contrapposizione che non si oppone all’ordine, ma è interna ad esso, come il suo stesso motore. Come può, una società, essere unificata dalla propria divisione? E come può, l’agonismo, produrre l’ordine, senza scivolare nell’antagonismo assoluto?».
Istituendo la vita, dice Esposito. Cioè restituendo all’Istituire, cioè all’atto stesso, una potenza maggiore dell’Istituzione, se non altro per superare l’idea di qualcosa di statico che semplicemente sta fermo nella storia. L’Istituzione diventa ‘espressione’ dello Spirito della sua epoca, si ‘oggettivizza’ ma in quanto oggetto della storia non sta mai fermo. È qualcosa che già solo per questo ‘vive’. Troppo spesso le istituzioni sono considerate non ‘soggetti agenti’ ma solo dei ‘contenitori’ di comportamenti individuali e collettivi. L’Istituzione, invece, è prassi. E l’homo agens è a sua volta un animale politico. Non riesce a definirsi solo dal lato naturale e riproduttivo, ma si chiarifica e mette a fuoco proprio a partire dal confronto con l’altro, l’autocoscienza nasce quando l’Io ha di fronte a sé un assolutamente altro che è un altro Io. Nasce, cioè, con la relazione.