Le coordinate entro le quali si muovono nello scenario attuale i principali agenti politici ed internazionali potrebbero riassumersi nell’acronimo mutuato dal lessico delle accademie militari e utilizzato dagli specialisti di strategia americani alla fine degli anni ’90 nel cosiddetto VUCA. Dove la “V” sta per volatility o vulnerability (volatilità o vulnerabilità); la “U” per uncertainty (incertezza); la “C” per complexity (complessità); la “A”, infine, per ambiguity (ambiguità). Quest’ultimo è forse il perno, il punto caratterizzante del contesto internazionale… In questo contesto si possono inquadrare le principali metamorfosi dello scenario europeo dove alle eleganti semplicità della governance europea dello scorso ventennio si sono sostituite variabili impreviste portate dal primato dei movimenti sui partiti. Dalla crisi del mercantilismo tedesco incarnato dai governi Merkel, portata dai populismi di destra e sinistra e dalla metamorfosi della CDU, al confuso protagonismo francese che prova a surrogare nelle relazioni internazionali le proprie necessità inappagate di politica interna, che cerca di cucire le varie anime della società francese frantumate da tensioni sociali e culturali. Fino alle instabilità e ambiguità del Regno Unito sulla scacchiera globale. Tutti elementi che caricano di incognite e fatalità la prossima corsa elettorale di giugno. Per approfondire questi temi abbiamo intervistato l’Ambasciatore Sergio Vento, già consigliere diplomatico di quattro presidenti del Consiglio, ambasciatore italiano negli Stati Uniti, in Francia e alle Nazioni Unite, responsabile esteri del Pri, tra i maggiori interpreti della scacchiera internazionale e delle sue strategie.
Ambasciatore Vento come valuta lo scenario politico comunitario alla vigilia delle elezioni europee?
Osservando gli ultimi sondaggi sembra evidente che il Partito Popolare Europeo si confermerà il primo partito del Parlamento Europeo, seguito dal Partito Socialista Europeo e da Renew Europe, a cui seguono a poca distanza Identità e Democrazia e Conservatori e Riformisti. Con in fondo i movimenti di sinistra e ambientalisti. Emerge, quindi, che la maggioranza che potrebbe uscire da questa consultazione elettorale dovrebbe essere una maggioranza centrista affine, per le sue componenti, a quella che elesse Ursula Von der Leyen cinque anni fa. In questo senso sembra affievolirsi il problema di una Commissione Europea condizionata dal peso dei partiti conservatori e sovranisti. Un pericolo che ha destato molta preoccupazione negli attuali leader europei, e che ora sembra essersi nettamente ridimensionato. Anche se ciò non appare così scontato. Ed anzi non bisogna dimenticare che esiste però un grande “ma” che potrebbe ridefinire gli equilibri dei vertici europei…
Ovvero?
Un “ma” dovuto principalmente a quali orientamenti prevarranno nel Partito Popolare Europeo, che sembra oggi conteso da due anime. Una orientata ad una maggioranza centrista con socialisti e Renew Europe, ed un’altra con un baricentro più orientato a destra, che vorrebbe costruire una maggioranza capace di coinvolgere, in qualche modo, sia conservatori che sovranisti. Il Partito Popolare (e le sue mutazioni) sarà quindi l’ago della bilancia che potrebbe mutare gli equilibri europei definendo il volto della nuova Commissione.
E a cosa è dovuta questa metamorfosi?
I popolari di oggi non sono più condizionati da una CDU di impostazione centrista, come era quella guidata da Angela Merkel, ma da una CDU in cui prevale una componente più conservatrice che fa capo a Friedrich Merz e più vicina alla CSU bavarese. Merz, infatti, potrebbe cercare una alleanza tattica con i conservatori e anche con i sovranisti. Una impostazione che otterrebbe tra gli altri fattori il sostegno della attuale maggioranza italiana, e che ha tra i suoi maggiori promotori il presidente Meloni.
Quali conseguenze potranno avere queste due opzioni? E chi ne sono i maggiori protagonisti?
È chiaro che, qualora il PPE dovesse scegliere come partner i due partiti della destra europea ciò escluderebbe ovviamente i socialisti dalla governance e costringerebbe Renew Europe ad una svolta verso destra. Il vero nodo di questa eventuale maggioranza sarebbe quindi se tale opzione riuscirà ad ottenere il sostegno di Macron e di RE, che appare tutt’altro che scontato. Uno slittamento a destra metterebbe il presidente francese in una posizione scomoda a livello interno, poiché finirebbe per includere il Rassemblement National di Marine Le Pen nella nuova maggioranza a Bruxelles. Una posizione spinosa soprattutto poiché RN ha già da tempo superato En Marche nei sondaggi politici francesi. Quest’ultima sembra logorata anche a sinistra da una rinascita momentanea dei socialisti e del loro astro nascente Raphaël Glucksmann. La posizione ideale per Macron sarebbe, quindi, di sostenere un candidato che mantenga il baricentro europeo su posizioni centriste, ma sotto una netta leadership non più tedesca bensì francese. Nel recente discorso alla Sorbona Macron è sembrato scegliere come proprio manifesto il rapporto sulla competitività di Mario Draghi. Nel suo rapporto quest’ultimo, infatti, reclama con forza la nascita di un solido piano di politiche industriali, un ampio programma di investimenti pubblici e privati, la realizzazione degli eurobond per la difesa, e ha criticato soprattutto il derapage verso le tesi della transizione verde. In questo senso la candidatura di Draghi, rappresenterebbe una maggioranza centrista, e sarebbe alternativa rispetto a quella di una Von der Leyen confermata. C’è sicuramente poi un altro tema che trova margini di consenso in tutto lo spettro politico con maggiore e minore enfasi.
Quale?
Che l’Europa che si configurerà dopo giugno si avvierà verso un impegno che non si relegherà solamente a questa legislatura, ma che porterà dei cambiamenti strutturali e di riforma dei propri meccanismi. In questo quadro appare molto difficile che il voto a maggioranza passi e quindi potrebbe affermarsi addirittura una ipotesi di Europa a due velocità che richiederebbe una autentica metamorfosi normativa. Un modello di Europa a due velocità che potrebbe richiamare quello del Trattato di Maastricht per quanto riguarda l’integrazione monetaria. Si tratta di un aspetto che potrebbe riproporsi anche sul tema della difesa comune.
Come valuta il tema della difesa comune europea?
Si tratta di un aspetto che sta riscuotendo consensi nelle opinioni pubbliche europee, e da parte di forze politiche di diversa connotazione. Anche se poi passare dal consenso alla messa in opera di un sistema effettivo e coerente non sarà così facile. Il tema della difesa comune europea si sta trascinando ormai dagli anni 50 (prima ancora delle affermazioni di De Gaulle sull’autonomia strategica dell’Europa nel 60-61), quando fu bocciata alla Assemblea Nazionale Francese la CED nel 1954. Il discorso si riaffacciò poi negli anni 90 sullo sfondo delle guerre jugoslave, trovando espressione nei trattati di Amsterdam e Nizza che promuovevano un sistema di forze di rapido impiego anche con effettivi importanti. Purtroppo, non se ne fece nulla perché una difesa europea si sarebbe intrecciata e sovrapposta inevitabilmente con la difesa atlantica. Una problematica ancora attuale che non va sottovalutata. Una difesa europea autonoma dalla Nato porterebbe a comandi disgiunti ed ad una difficile separazione tra i comitati militari della Nato e della UE, con inevitabili conflitti di attribuzione e contraddizioni. Molti ufficiali europei svolgono funzioni di rilievo nei quadri Nato e dispongono di strutture di coordinamento che hanno una maggiore strutturazione e questo creerebbe delle diarchie “professionali” nella gestione degli interessi strategici del continente europeo. L’autonomia strategica di cui Macron parla rischierebbe, quindi, di ostacolare una governance euroatlantica, ma anche di scontrarsi con difficoltà concrete. Nel suo già citato discorso alla Sorbona Macron, con toni eloquenti e polemici, ha affermato che l’Europa “potrebbe morire se non reagisce”, cioè se non si posiziona con fermezza su alcuni temi di carattere industriale e tecnologico che dovrebbero essere strutturati secondo una prospettiva comunitaria. Ma ciò cozza con il reale quadro europeo. Si pone, infatti un altro inevitabile problema: quello che riguarda lo scenario concreto del settore industriale.
Come valuta quindi l’ultimo discorso di Macron?
Il discorso del Presidente della Repubblica francese è puramente elettorale e funzionale per cercare di evitare il sorpasso del partito di Marine Le Pen. Si tratta di quel confuso protagonismo francese che abbiamo già visto emergere nel suo discorso sull’invio di truppe in Ucraina. Una presa di posizione forte che mostra che Macron ha voluto dare a Renew Europe un ruolo guida rispetto al Partito Popolare Europeo proiettando le proprie ambizioni (inappagate) della politica interna verso la politica estera. Soprattutto mentre il ruolo del suo partito sembra essere ridimensionato sia in sede interna che europea. Macron sta cercando quindi di creare una agenda per ricostituire una maggioranza di cui cercherà di essere il maggiore protagonista. Soprattutto alla luce della metamorfosi della CDU tedesca che dopo la sconfitta di Armin Laschet, sostenuto dalla componente centrista e filoMerkel, vede un profondo mutamento. Merz cerca quindi una virata a destra per contenere l’emorragia di voti del mondo conservatore verso AFD. Un rimedio non molto efficace, che rischia di creare un inseguimento della destra tedesca da parte della CDU. Il quadro tedesco vede anche una fuga di voti dalla SPD, sotto la debole guida di Olaf Scholz, verso una nuova formazione di sinistra, che si aggiunge a quella già verificatasi verso i verdi, che sta indebolendo i socialdemocratici. Stiamo, infatti, assistendo non solo ad una crisi della precedente governance europea, ma della forma partito classica.
Cosa si evince da questo scenario di crisi delle strutture classiche della politica europea?
Emerge una crisi complessiva della forma partito, che si sviluppa parallelamente all’avanzata dei “movimenti” rispetto ai “partiti”. I veri protagonisti della politica francese, ad esempio, sono i movimenti come quello di Marine Le Pen, di Melanchon e dello stesso Macron. Anche in Germania i partiti classici stanno subendo delle perdite e vere emorragie elettorali a vantaggio di nuovi movimenti, tra cui spicca AFD. In Italia abbiamo visto man mano nel tempo l’affermazione di molti movimenti che hanno iniziato a raccogliere consensi con l’avvio della cosiddetta seconda repubblica. Un fenomeno caratterizzato da forti personalismi, con le loro relative parabole, più o meno brevi, come fu con Berlusconi, Prodi, Renzi, Grillo, Conte, Salvini. La traiettoria di tali movimenti anche su basi personali sembra inoltre molto atipica, effimera ed instabile con parabole di consenso che passano rapidamente dal 33% all’ 8, come nel caso della Lega di Matteo Salvini, o dal 4% del 2018 al 29 attuale di Fratelli d’Italia. La forma partito, che è un elemento classico della democrazia rappresentativa, appare oggi più che mai messa in crisi e sostituita, con maggiore o minore intensità, da movimenti. Una problematica che risulterà decisiva nel confronto con i principali cambiamenti dirompenti in atto nello scenario europeo. Basti pensare alle metamorfosi del panorama politico del Regno Unito negli ultimi anni…
Come valuta lo scenario britannico a pochi mesi dal rinnovo della Camera dei Comuni?
In questo quadro possiamo certamente affermare che anche la stessa gran Bretagna ha subito gli effetti di questa ascesa dei movimenti rispetto ai partiti. Pensiamo all’azione di un movimento come l’UKIP che ha portato alla Brexit. Da quel momento Londra ha visto una forte instabilità e incertezza che ha prodotto iniziative velleitarie e infruttuose come il Global Britain. Lo scenario politico sembra poi rilevare da una parte la forte stanchezza dei tories, dall’altra una metamorfosi del labour. Assistiamo, infatti, ad un partito laburista che con molte probabilità potrà sconfiggere ampiamente il Partito conservatore, abbandonando le precedenti posizioni radicali della leadership di Corbyn, verso ricette più centriste. I tories scontano il governo ininterrotto del Paese per circa 16 anni che ha avuto numerosi inciampi e errori, dalla Brexit alle ultime ambiguità del premier Sunak. Ciò ha prodotto alla conseguenza che ora il Partito Conservatore rischia di essere scavalcato a sinistra dai libdem e a destra dal Reform party. Una emorragia favorita da un labour forte e coeso, capace di raccogliere un marcato consenso per intersezione da parte degli elettori moderati. I tories hanno avuto, infatti, numerosi rovesci: la sconfitta di Cameron; il lungo debole interregno di Teresa May; la leadership velleitaria di Johnson e il suo anacronistico progetto di Global Britain; la effimera parentesi di Liz Truss; e ora il governo Sunak che appare molto ambiguo e confuso nei suoi messaggi sull’immigrazione e sull’economia.
Quali sono stati i limiti del Global Britain?
Si tratta di uno slogan che non è piaciuto né agli americani, né a molti europei, ma soprattutto ai tanti membri del Commonwealth. Come nel caso dell’India, dell’Australia, della Nuova Zelanda e del Canada. Tutti paesi che in questo momento stanno costruendo profili identitari con forme di autonomia strategica. Essi hanno guardato con diffidenza ad una Gran Bretagna con la pretesa di farsi potenza globale, che preferivano ancorata nell’Unione Europea come canale privilegiato verso l’Europa aperta sul piano globale, pur non seguendone i vincoli. Soprattutto l’Australia gioca nel Pacifico la propria partita, sia in un rapporto strategico con gli Usa, ma anche con un rapporto problematico e interessante, con la Cina (un mercato essenziale per le proprie esportazioni minerarie e agroalimentari), in profonda autonomia. Oppure pensiamo al Canada che ha una propria identità autonoma sia rispetto agli Stati Uniti che rispetto all’influenza britannica e che non avrebbe visto di buon occhio una preponderanza britannica. La stessa Gran Bretagna di fronte alle evoluzioni europee, nel settore della difesa, ma non soltanto, sembra orientarsi sempre di più per un riavvicinamento, non certo in termini di rientro, ma sicuramente concreto e significativo verso l’Ue. Molto favorito dalla Commissione Europea e in larga misura dalla Germania.
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