Pubblichiamo la Relazione tenuta dall’amico Eugenio Fusignani, responsabile Nazionale Enti locali Pri e vicesindaco di Ravenna in occasione della presentazione dell’archivio digitale di Ugo La Malfa tenuta dalla Fondazione La Malfa nella Sala Corelli del Teatro Alighieri di Ravenna.
“È con piacere che ho accettato di portare un modesto contributo in questo momento che vuole ricordare Ugo la Malfa, una delle più importanti figure della politica europea del ‘900. A maggior ragione in questo 2023 che a maggio vedrà il 120º della sua nascita. Un convegno che anticipa anche di poche settimane la ricorrenza della sua morte avvenuta il 26 marzo 1979. A 44 dalla scomparsa di Ugo La Malfa, è ancora difficile non emozionarsi al ricordo di tanta grandezza. Quel giorno, infatti, se il PRI perdeva la sua guida politica più lucida, l’Italia perdeva lo statista più lungimirante ed autorevole del suo tempo.
Ricordo quel giorno come fosse ora. Ricordo il senso di smarrimento tradito dai volti tesi dei grandi di allora; dal sen. Leo Valiani, che tenne l’orazione funebre, al Capo dello Stato Sandro Pertini, impietrito di fronte al feretro. Ma sarebbero bastate solo le lacrime versate, quel triste giorno, da vecchi Repubblicani romagnoli, affranti come per la perdita di un padre, per spiegare la Sua grandezza. Tra quei Repubblicani con gli occhi lucidi c’era anche mio babbo, che volle portarmi a Roma per l’ultimo saluto a Ugo, il 29 marzo 1979, per accompagnarlo da Repubblicani quelli eravamo lui ed io, nell’ultimo viaggio. Ugo La Malfa non fu solo il leader del PRI ma fu uno dei padri dell’Italia repubblicana e, soprattutto, il padre del centrosinistra che regalò al Paese gli anni migliori della storia repubblicana. La sua era una statura morale, intellettuale e politica che si elevava su tutte, in quei tempi pieni di giganti e di altre straordinarie figure politiche. La sua “Nota Aggiuntiva”, con la redistribuzione della ricchezza prodotta fra reddito e qualità di vita, resta ancora oggi la pietra cubica delle politiche riformatrici e la rotta obbligata per ogni coalizione che voglia definirsi di Centrosinistra. Il nanismo politico dei nostri tempi, con la volgarità di molti suoi interpreti, nemmeno riesce a immaginarla tanta grandezza. Dopo di lui la politica italiana non è riuscita più a trovare un faro tanto illuminante, una guida tanto ferma moralmente e autorevole politicamente. In questo momento di difficoltà per tutto il mondo, la sua intelligenza e la sua visione di prospettiva ci mancano ancora di più. In uno scenario come questo avrebbe richiamato il PRI ad essere consequenziale alla sua storia, allontanandolo dalle pericolose tentazioni terzopoliste per riprendere le ipotesi di quella Terza Via che rafforzasse le politiche di centrosinistra, adeguandole alle necessità di traghettare il mondo nell’era della post globalizzazione. Ma soprattutto avrebbe richiamato la politica nostrana al senso di responsabilità che le compete per il ruolo del suo alto magistero e, al contempo, avrebbe bacchettato l’Europa costringendola a ritrovare lo spirito dei padri fondatori per fare il salto necessario per trasformare una semplice unione monetaria in una vera e propria Europa politica. Ed anche per questo, ancora oggi lo piangiamo come leader di partito ma soprattutto lo rimpiangiamo come faro e guida per la nostra democrazia repubblicana. Come lo rimpianse Montanelli che pure lo aveva criticato senza sconti quandanche con rammarico. Scriveva di lui Indro Montanelli in quel ’76 nel quale si consumava un distacco dalla linea politica di apertura al PCI indicata da Ugo La Malfa per quel delicato momento storico: “Consideriamo La Malfa uno dei nostri pochissimi uomini politici di livello europeo sia per statura intellettuale che per qualità morale; un leader di vocazione anche ideologica, il cui peso eccede di gran lunga quello del suo stesso partito. Questa è l’opinione che abbiamo di lui. La confermiamo. E non c’è dissenso che possa inficiarla… Non sappiamo quanto a La Malfa dispiaccia che la nostra strada diverga dalla sua. Per noi, che la sua diverga dalla nostra, è un lutto.” Parole che, pur nel dissenso, raccontano della caratura di quest’uomo che, con un piccolo esercito, seppe tenere testa alle più grandi forze politiche nazionali e fargli spesso cambiare idea con la sola forza delle idee: quelle idee che oggi più che mai mancano alla politica, ai repubblicani, e soprattutto, al Paese.
Ma veniamo ora al rapporto tra Ugo La Malfa e la Romagna, un rapporto intenso e di un amore totalmente corrisposto. Difficile spiegare il perché di come la passione viscerale dei repubblicani romagnoli, che rappresentavano un vero e proprio partito di massa, potesse coniugarsi con le tesi quasi elitarie di un finissimo intellettuale come Ugo La Malfa. Eppure per le alchimie della politica, quell’uomo esile ma enormemente grande nel pensiero seppe aprire le menti del vecchio partito risorgimentale aprendolo alla modernità di una politica che ancora oggi resta un faro per il Paese e una rotta imprescindibile per ogni forza che si richiami ai valori della sinistra democratica europea. Aprì le menti e accese i cuori dei romagnoli, di un amore quasi fisico nei suoi confronti: veniva in Romagna e tutti volevano toccarlo, stringergli la mano scambiargli un gesto o una parola per poter dire con orgoglio “a j ò scôrs cun La Malfa e u m’à dé la man”. Lui, di ispirazione direi quasi cattaneana, subì certamente le influenze del pensiero di figure straordinarie come Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato e, soprattutto, Benedetto Croce col quale tenne un confronto dialettico molto alto in un rapporto di reciproca stima. Intellettuali che contribuirono non poco a forgiare la sua tempra di democratico a tutto tondo, quella che lo portò tutta la vita a cercare di rappresentare quell’Altra Italia, in un’altra e alta idea di sinistra che ancora oggi goffamente qualcuno cerca di costruire, magari definendosi per repubblicano e mazziniano dagli scranni di altri partiti. Ugo La Malfa veniva dal Partito d’Azione, che aveva contribuito a fondare nel 1942, anche se il suo antifascismo si era con chiarezza assoluta manifestato fin dal primo momento dell’avvento del regime. La sua cultura mazziniana apparve chiara allo scioglimento del Partito d’Azione, quando aderì al PRI nel 1946. Insieme a Oronzo Reale, Bruno Visentini e altri, innervando di cultura azionista la vecchia tradizione repubblicana, fece dell’Edera la punta più avanzata, ancorché esigua nei consensi, della modernizzazione del Paese e, col centrosinistra, regalò la stagione politica più bella della politica italiana del dopoguerra. Quella posizione fece tornare l’orgoglio repubblicano romagnolo di essere fieramente sinistra in maniera competitiva con quella marxista. Anche questo determinò il rafforzamento del legame d’amore coi repubblicani romagnoli. Ma al di là dei rapporti con Cesena e Oddo Biasini, era con Ravenna che aveva un rapporto speciale: non solo perché veniva eletto nel nostro collegio ma perché qui aveva radici profonde la cultura repubblicana risorgimentale che si saldava con quella dell’impresa che stava facendo cambiare pelle al Paese e, ovviamente, alla città. E su questo terreno qui trovò giovani come Manlio Monti, vero interlocutore di Ugo La Malfa che stimava e sul quale puntava moltissimo. Monti, insieme a Bruno Benelli, aprirono un nuovo corso repubblicano destinato a durare per molti decenni anche dopo la loro prematura scomparsa.
A proposito di Monti, La Malfa scriveva su la Voce di Romagna il 14 dicembre 1963: “Manlio Monti è tragicamente scomparso, accoratamente e amaramente rimpianto da me che avvertivo in lui le qualità di un uomo politico e di un democratico esemplari” e aggiungeva “…con la sua tenacia e il suo inimitabile ascendente, aveva dato un’amministrazione regolare e una giunta di centro-sinistra alla sua città.” “…i Repubblicani d’Italia sanno che cos’hanno perduto … e io stesso so quale compagno di lotta e quale amico ho perduto. Una triste sorte ce lo ha sottratto. Tocca a noi più vecchi di lui, nel suo ricordo, continuare per noi e per lui stesso la battaglia.” E rivolto ai giovani Repubblicani di Ravenna: “…tocca a voi che vi ha saputo educare, continuare quello che egli non potuto portare a termine.” È in queste parole il senso del PRI nell’impegno amministrativo anche attuale: e cioè l’impegno per salvaguardare e portare avanti i valori del centrosinistra che noi rappresentiamo, che nessuno senza la nostra storia può rappresentare e che saranno il discrimine anche per le nostre alleanze future. Non temiamo maggioranze allargate ma a patto che nelle maggioranze restino saldi i valori e i principi del centrosinistra. Qui si tenne il 13 dicembre 1965, in un Teatro Mariani pienissimo, il famoso dibattito PRI e PCI tra lui e Pietro Ingrao, per convincere il Pci sui cardini del disegno lamalfiano di aprire moderne politiche di sinistra occidentale: la politica dei redditi e la programmazione economica. Solo tardi trovò soddisfazione su questo: quando Cofferati parlando a Ravenna in Piazza Andrea Costa del professor D’Antona, assassinato dalle Nuove Brigate Rosse, lo definì uomo della sinistra, amico dei lavoratori perché “scriveva e difendeva la politica dei redditi”. Ancora una volta Ravenna nel percorso di Ugo La Malfa: quella Ravenna che lo aveva visto anche arrabbiarsi con i giovani repubblicani che gli contestavano l’adesione al PRI dell’Avvocato Gianni Agnelli o quando criticavano le politiche troppo filoamericane durante la Guerra in Vietnam. A riprova di come quella di Ugo La Malfa fosse sempre la posizione giusta di una sinistra moderna, dal momento che veniva criticato tanto da destra (come fu per Montanelli) quanto da sinistra (come coi giovani della FGR ravennate). Qui operava il Circolo Culturale “Carlo Cattaneo” dove lui, intellettuale di formazione cattanenana, trovò una rivista di grande spessore come “Argomenti” e tanti interlocutori che gli furono anche amici veri, penso al compianto Sergio Gnani oppure al giovane Sauro Mattarelli.
La gloriosa rivista del circolo “C. Cattaneo” – nella cui redazione diretta dall’unico giornalista di allora Gianni Celletti, operavano oltre ai citati Gnani e Mattarelli, persone come Graziella Gardini Pasini e Gastone Scheraggi – fu un’eserienza importante, perché in essa venivano affrontate diverse tematiche culturali e di cultura politica. Questo non poteva che piacere a un intellettuale come Ugo, attento agli aspetti di formazione delle coscienze più che a quelli di un bovino reclutamento partitico, inorgoglito anche dal fatto che, nonostante le scarse risorse non consentissero una uscita regolare, questo non impediva che su quelle pagine collaborassero nomi prestigiosi. Infatti oltre alla sua, Ugo La Malfa, si compiaceva per firme come Bruno Visentini, Giovanni Ferrara, Norberto Bobbio, Giovanni Spadolini, Carlo Cassola o Elena Croce. E anche in questo si vedeva la statura di Ugo La Malfa che non temeva i confronti e che, come tutti i grandi, voleva contornarsi solo di persone di assoluto spessore. Un rapporto quello col circolo che spesso era anche contraddittorio ma sempre improntato sulla stima e sul riconoscimento della sua indiscussa caratura intellettuale, morale e politica che anche quel nucleo di giovani menti repubblicani gli riconosceva. E per Argomenti, due settimane prima della sua morte, rilasció quella che forse fu la sua ultima intervista. Ma a Ravenna non trovò solo un clima di temperie culturale non da provincia, ma trovò l’affetto dei repubblicani che lo accoglievano nei circoli, lui bravissimo giocatore di scopone, come si accoglie un fratello che torna dopo un viaggio lontano. Ed era bello vedere quest’uomo austero nella sobrietà dei suoi modi, lasciarsi andare al sorriso tipico di chi sta vivendo momenti di autentico piacere seduto al tavolo con amici spesso improvvisati, come fosse un qualsiasi avventore. Un affetto quello suo nei confronti dei nostri circoli che era profondamente ricambiato da un popolo repubblicano che in lui aveva trovato un faro insostituibile e una bussola da seguire. L’uomo che aveva ridato l’orgoglio di appartenere ad una storia che era tutt’una con la storia del Paese. E poco importa se qui le radici erano ancora quelle del mazzinianesimo che lui (apparentemente) voleva recidere: in realtà lui voleva fondere quelle radici con la modernità ed elevare il livello di cultura politica del partito, e questo i repubblicani romagnoli lo capirono molto bene.
L’avvicinarsi del IX FEBBRAIO, coi lumini accesi nelle finestre delle case di campagna per ricordare la Repubblica Romana, porta alla mente una sua frase che fece tremare i polsi ai repubblicani: “io quei lumini li voglio spegnere” disse, ma il senso non era quello di spegnerli per cancellare una storia ma semplicemente per richiamare il popolo repubblicano ad evitare di cadere in semplici ritualità senza riempire quel rito dei contenuti che la sfida della modernizzazione richiedevano. L’ultima sua volta a Ravenna fu alla Sezione Doveri e Diritti il mese prima prima della sua morte. Lo ricordavo sopra, il giorno della sua morte, mai vidi tanta disperazione in uomini spesso duri come erano i repubblicani romagnoli; una disperazione che divenne lacrime a dirotto quel 29 marzo in Piazza Esedra oggi Piazza della Repubblica, per i sui funerali. In quelle lacrime c’erano il dolore e la consapevolezza che, nonostante quella sua famosa frase al congresso di Milano (Io passerò, ma il partito dell’unità e della indipendenza del Paese, il partito dell’europeismo di Mazzini e del federalismo di Cattaneo non passerà) senza la sua spinta ideale, senza la sua forza morale, senza la sua grandezza politica, senza la sua autorevolezza intellettuale, quella straordinaria esperienza politica nata nel 1895 non sarebbe stata più la stessa. Questo la Romagna lo sapeva benissimo: e Ravenna lo sapeva di più e, non a caso, qui il suo messaggio, il suo insegnamento, il suo ricordo, non solo sono rimasti vivi ma sono ancora attuali e decisivi per le sorti delle amministrazioni: qui il suo lavoro di una vita per fare del PRI non già un partito del Centrosinistra ma IL CENTROSINISTRA è attualità e non ricordo come in altre realtà dove per seguire le bizze di questo o quel dirigente si è perso il filo della storia della presenza politica repubblicana. Una storia che non ammette incoerenze come i salti che la portarono in alleanze innaturali sul piano etico e dei principi, prima ancora che su quello politico, nel primo decennio degli anni 2000, ma nemmeno essere demandata al primo Calenda che capita dichiarandosi repubblicano non sapendo nemmeno dove si trova PRI e sempre dagli scranni di altre formazioni politiche. A Ravenna questo non è mai successo, e i risultati si vedono tutt’oggi. Qui, oltre l’afflato mazziniano, c’è ancora il PRI che, come tutta l’Edera, è sì orfano di Ugo La Malfa ma non lo è della sua opera, del suo rigore morale e della sua straordinaria lezione etica, economica, culturale e politica. Anche per questo credo che, oltre al suo patrimonio ideale, che resta ancora vivo a Ravenna, qui debba stare anche la sede regionale della Fondazione, e trovare ospitalità anche il suo straordinario patrimonio bibliografico. Lo dobbiamo al partito dell’Edera, alla storia dei repubblicani e, soprattutto, alla memoria di uno dei più grandi statisti del XX Secolo: Ugo La Malfa.