Qualcuno pensa che l’Europa sia finita. Personalmente, spero proprio di no, ma bisogna essere pronti a tutto, anche perché i capelli bianchi che stanno prendendo il sopravvento sul cuoio capelluto della mia testa mi stanno aiutando a capire che la storia può riservarci sorprese di ogni genere. Di fronte a quello che per alcuni è apparso un brusco risveglio che ha trasformato le certezze di ieri nelle delusioni di oggi, uno dei passatempi serali degli eruditi è quello di cercare di individuare la paternità della nozione attuale di Europa: un’Europa fatta di tentativi (spesso non del tutto riusciti) di sinergie e coordinamento. Molteplici sono le risposte possibili.
Le radici di questa Europa potrebbero far pensare alle gloriose conquiste di Roma e alla creazione dell’Impero, con il riconoscimento dei valori connessi alla humanitas romana, affermatasi nel Circolo degli Scipioni e riscoperta dal Petrarca (come teorizzato da Guido Cappelli nel suo volume L’Umanesimo italiano da Petrarca a Valla, Carocci, Roma, 2013). Potremmo essere indotti a riflettere sul sogno di Carlo Magno e sulla nascita del Sacro Romano Impero, che – secondo alcuni storici – diede vita alla civiltà occidentale, fondata su valori romani, in parte “corrotti” dai costumi di popoli germanici, in una fusione di suggestioni che si tradusse in liturgie culturali e politiche che richiamavano il mondo classico, in una compenetrazione tra regnum e sacerdotium (come indicato da Franco Cardini nel suo saggio Carlo Magno, un padre della patria europea, Bompiani, Milano, 2002). Dieter Hägermann ricorda che Carlo Magno diede vita a un concetto nuovo di Stato, basato su un’articolazione complessa, ma la Divisio Imperii dell’806 tradì l’appuntamento con la storia, con il recupero della tradizione franca di spartizione dei beni tra i figli.
La spiritualità cristiana contribuì a dare un volto ai popoli di un continente in crisi e in cerca di identità, ma non riuscì a proporre soluzioni che traducessero il sommo insegnamento di Cristo in fratellanza dei popoli. E neppure durante le Crociate i “grandi” d’Europa andarono d’accordo, animati troppo spesso da ambizioni personali. Carlo V pensò di poter riunire l’Europa, ma la sua fu una attività di conquiste, costellata di distruzioni, come il celebre sacco di Roma del 1527, che provocò decine di migliaia di morti. Evidentemente, l’opera dell’imperatore asburgico non fu dettata dal desiderio di creare uno spazio di fratellanza e cooperazione, ma fu legato alla sete di conquista. Ragionamento simile potrebbe farsi per Napoleone Bonaparte, che, con la scusa di portare ideali illuminati, cercò di diventare “padrone” dell’Europa (e non fondatore di una Europa unita).
Per trovare un padre nobile dobbiamo ritornare in Italia e recuperare il modello teorizzato dall’Apostolo dell’unità nazionale. Probabilmente, la Giovine Europa, costituita il 15 aprile 1834 a opera di Giuseppe Mazzini, rappresentò il primo vero tentativo di promuovere un patto di fratellanza tra le nazioni europee. Si trattò di una rivoluzione culturale, forse in una età in cui non si era ancora pronti per una svolta del genere. Nel 1926 il conte Richard von Coudenhove-Kalergi fondò l’«Unione Paneuropea», immaginando una (impensabile sino a quel momento) unione doganale, oltre a recuperare la spinta tesa al patto di fratellanza tra i popoli misto a sentimenti filantropici.
E ritorniamo in Italia. Il Manifesto di Ventotene scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi (con il contributo di Eugenio Colorni) immaginò una nuova Europa, intrisa di valori socialisti, che non fu presa a modello dalle successive istituzioni, ma diede una importante spinta all’idea di coordinamento e sintesi tra i popoli europei. Spinelli e Rossi, che diedero vita al movimento federalista, teorizzavano la dittatura del partito rivoluzionario, grazie alla quale si sarebbe formato «il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia». Quella riforma avrebbe poi condotto a «una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento, di istituzioni politiche libere». In sostanza, veniva auspicato un intervento che avrebbe dovuto educare il popolo, spingendolo verso una nuova realtà in cui si sarebbe potuta affermare una forma democratica: suggestioni – quelle del testo dato alle stampe nel 1941 – che non si tradussero in alcuna delle istituzioni con vocazione paneuropea.
Quindi, in sintesi, tanti potrebbero essere i padri dell’Europea attuale, anche se – probabilmente – il sogno mazziniano giganteggia sugli altri progetti per completezza e lungimiranza. Intriso da una visione anti-individualista e improntata all’etica del dovere, Mazzini profetizzava «un organismo europeo articolato nelle singole nazionalità, ma concepito unitariamente», come riconosciuto da Lara Piccardo (Dalla Patria all’Umanità. L’Europa di Giuseppe Mazzini, Il Mulino, Bologna, 2020). Probabilmente, senza l’approccio mazziniano non avremmo potuto assistere alla nascita delle istituzioni europee.
Nel 1949 si diede vita al Consiglio d’Europa, una organizzazione internazionale con l’obiettivo di promuovere i diritti umani, la democrazia e i valori dello «Stato di diritto» in Europa. Grazie all’entusiasmo che salutò la nascita del Consiglio d’Europa e sotto la spinta del c.d. «piano Schuman», pochi anni dopo, sei Paesi (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) costruirono le premesse per lo sviluppo di una forma di cooperazione (fino a quel momento impensabile in ambito economico): nel 1951 venne sottoscritto un trattato per riunire le industrie del carbone e dell’acciaio degli Stati aderenti sotto una gestione comune. Si trattò di un atto di forte significato economico, ma anche politico, dato che – da allora – nessuno dei Paesi aderenti al sistema ebbe la possibilità di fabbricare armi da guerra da solo, essendo così – di fatto – inibita la minaccia di ogni Stato nei confronti degli altri Paesi membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). E poco importa se Robert Schuman aveva come obiettivo principale quello di superare le (ataviche) inimicizie tra Francia e Germania. Ciò che conta è che fossero state gettate le basi per la costruzione di quel sistema che avrebbe condotto ai Trattati di Roma del 25 marzo 1957 e, successivamente alla nascita dell’Unione europea, così come la conosciamo oggi, anche se spesso troppo ancorata a presupposti di natura economica.
In una fase del percorso, nonostante le (nobili) premesse, si mettevano da parte le nobili speranze di Giuseppe Mazzini, per riconoscere alla nuova Europa basi solidamente economiche. Le istanze solidaristiche, almeno all’inizio, venivano relegate all’àmbito del Consiglio d’Europa, che faticò non poco per rendere funzionante il meccanismo della Corte europea dei diritti dell’uomo. In estrema sintesi, la Comunità ebbe a muovere i primi passi proprio in settori nevralgici per lo sviluppo economico indispensabile per consolidare una ricostruzione che si stava realizzando in tempi straordinariamente veloci. Almeno, si può dire che i Padri costituenti dell’ordinamento comunitario avessero messo da parte formule sicuramente “ad effetto”, ma che avrebbero nascosto un cinismo. Quel cinismo che, per esempio, aveva spinto la Corona britannica a rispolverare l’espressione che aveva contraddistinto la repubblica di Oliver Cromwell (Commonwealth) per dar vita a una organizzazione internazionale in cui per bene comune venivano spacciati gli interessi dei britannici, nel tentativo di mantenere una supremazia sui sudditi di ieri.
Ma, come si sa, il Regno Unito ci ha abbandonati. E, forse, anche noi abbiamo un po’ abbandonato l’idea di una unità continentale, se non altro ancorata ad alcuni paradigmi dogmatici. Un bel problema, quindi, quello dell’Europa attuale, sempre incerta tra spinte solidaristiche e chiusure autocratiche, perennemente in lotta tra le ambizioni di realizzare un sistema perfetto e le agghiaccianti mode dettate da un’inutile (quanto dannosa) ipertrofia legislativa. Allora, forse, non dovremmo chiederci quanti (e quali) siano i padri di questa Europa, ma quanti (e quali) siano gli obiettivi attuali delle istituzioni del Vecchio Continente. E, per risolvere il quesito, dovremmo farci un’altra domanda: quante voci ha l’Europa oggi? La risposta è semplice. Tante quando si deve dialogare (e questo è un bene), ma troppe quando si deve lavorare (e questo è un male). E il parlarsi addosso è terribile, almeno quanto parlare contemporaneamente senza coordinamento.
Giuseppe Mazzini pensava che il risveglio nazionale italiano avrebbe condotto il nostro Paese a diventare una guida per tutta l’Europa. E, in effetti, l’Italia avrebbe (ancora) tutte le carte in regola per “dire la sua”, ma sembra che in molti si siano dimenticati che le istituzioni continentali hanno portato vantaggi e non solo svantaggi. E questi ultimi sono arrivati soprattutto quando una classe politica in larga parte fatta di inetti si è adagiata su comode poltrone, dimenticando il ruolo cui era chiamata. Costoro hanno trasformato le istituzioni europee in vecchi arnesi un po’ arrugginiti, che riescono a comunicare ai popoli ben poco. Una classe politica inadeguata ha ridotto enormemente le prospettive e, con esse, gli obiettivi delle istituzioni che erano nate per favorire un percorso fatto di opportunità.
L’assenza di educazione, quindi, ha condizionato un percorso in cui il ruolo italiano sarebbe stato centrale, almeno tenuto conto dell’esempio che il nostro Paese avrebbe potuto dare agli altri, traendo forza nella nostra storia e nella nostra cultura. E sono quindi ancora attualissime le parole del Profeta dell’unità nazionale: «senza educazione voi non potete scegliere giustamente fra il bene e il male; non potete acquistare coscienza dei vostri diritti, non potete ottenere quella partecipazione nella vita politica senza della quale non riuscirete ad emanciparvi: non potete definire a voi stessi la vostra missione». Una missione – quella prospettata da Mazzini – che abbiamo nel sangue e che dovrebbe rappresentare qualcosa di sacro. Ma questa Repubblica imperfetta che stiamo vivendo ci ha insegnato che – come diceva Marcello Marchesi – ormai «in Italia non c’è niente di sacro, tranne l’osso dove si prendono i calci». E di calci ne stiamo prendendo tanti. Soprattutto noi (poveri) cittadini.