Il 5 marzo la storia europea avrà una svolta epocale. In questa data infatti verrà reso noto il piano per l’industria della difesa europea e il programma di investimenti militari.
La guerra infuria a est e le dichiarazioni sull’invio, in futuro, di soldati in Ucraina ventilato dal presidente Macron pochi giorni fa trova eco nelle parole di Ursula von der Leyen che ha dichiarato: “c’è ancora molto da fare e dobbiamo muoverci in fretta, la minaccia di guerra può non essere imminente ma non è impossibile”.
Parole sicuramente meno forti di quelle del presidente francese ma che puntano nella stessa direzione: dobbiamo armarci e prepararci.
Serve quindi una economia di guerra, perché senza capitali si va poco lontano.
“Per una difesa europea credibile, dobbiamo anche avere un’adeguata ambizione di bilancio” dice giustamente Thierry Breton, commissario UE al Mercanto Interno, “per questo ritengo che dobbiamo iniziare a prepararci fin da ora, entro i prossimi 12 mesi, alla possibilità di investimenti ad hoc e aggiuntivi nella difesa, dell’ordine di un centinaio di miliardi di euro”.
Si noti la cifra, questo centinaio di miliardi, che andrebbe ad aggiungersi ai 346 miliardi spesi dai paesi europei per la difesa (dati 2022), praticamente pari alla guerra fredda: un amento del 29% circa in, teoricamente, un solo anno.
“Dobbiamo produrre di più, più velocemente e insieme, come europei. La disponibilità di attrezzature per la difesa dell’Ue sta diventando un problema di competitività e sicurezza per l’industria europea della difesa” prosegue Breton con grande incisività.
“Dobbiamo cambiare il paradigma e passare alla modalità dell’economia di guerra. Ciò significa anche che l’industria europea della difesa deve assumersi maggiori rischi, con il nostro sostegno, dando loro maggiore visibilità. È questo l’obiettivo della nuova strategia industriale per la difesa”, conclude Breton non lasciando spazio a interpretazioni.
Ecco perché il 5 marzo è una data chiave, forse per il mondo intero.
Quasi in un rimbalzarsi di dichiarazioni, nei giorni scorsi, Ursula von der Leyen ribadisce che i rischi della guerra “non vanno gonfiati ma affrontati” e specifica “l’urgente necessità di ricostruire, rifornire e modernizzare le forze armate degli Stati membri”.
La presidente von der Leyen annuncia anche l’apertura di un ufficio per l’innovazione della difesa proprio a Kiev; cosa che sarà certamente letta dai russi come una provocazione.
Dobbiamo tornare alle risorse però, perché coi proclami le guerre forse si iniziano ma non si vincono.
Le idee allo studio sono principalmente due: l’emissione di titoli specifici di debito oppure la vendita dei beni russi sequestrati.
L’emissione di titoli eurobond per il finanziamento delle spese militari, che alcuni stanno già nominando defence bond, è una modalità che si è sempre utilizzata. Il nome era decisamente più chiaro: sottoscrizione del prestito di guerra.
La sostanza non cambia.
Quando venne effettuata la prima raccolta per affrontare la prima guerra mondiale quelli che oggi in banca chiameremmo “fogli informativi” scrivevano a chiare lettere: “sottoscrivere al Prestito Nazionale significa compiere un atto patriottico: assistere con sollecitudine fraterna coloro che combattono, dare un contributo alla vittoria. Sottoscrivere al Prestito Nazionale significa fare il migliore impiego del proprio capitale, il più sicuro, garantito dalla firma dell’Italia”.
Oggi potremmo scrivere che significa compiere un atto europeo, perché se la guerra dovesse estendersi diverrebbe la vera fornace in cui fondere in oro e piombo l’Europa davvero unita.
L’emissione di titoli di debito però si scontra con un problema non da poco: questi titoli, è sempre stato così, sono remunerati da tassi di interesse.
Sarebbe bello sognare dei titoli sottoscritti dai cittadini europei senza richiesta di interessi ma temiamo che avrebbero poca fortuna.
In questo momento i tassi sono molto alti per via dell’inflazione, necessariamente quindi i defence bond sarebbero uno strumento, a oggi, costoso.
Un giudizio critico arriva anche dal ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, che non ritiene necessaria l’emissione di eurobond per finanziare la difesa, ma richiama i paesi membri alla loro responsabilità in materia di spesa militare.
Giungiamo quindi alla seconda opzione: la vendita dei beni sequestrati alla Russia e ai russi. Questo capitale ammonta a oggi a 346 miliardi e si trova “congelato” in attesa di disposizioni. Questa cifra è tripla rispetto agli ipotizzati 100 miliardi per il prossimo anno ma l’UE sa bene che la vendita di questi beni equivarrebbe a una confisca e sarebbe interpretato come un vero atto di guerra; se la UE si finanziasse attraverso questi beni il dado sarebbe tratto per davvero.
Questa idea trova peraltro apertura proprio da parte di Ursula von der Leyen che propone di “iniziare una conversazione sull’utilizzo dei profitti dei beni russi congelati per acquistare congiuntamente equipaggiamenti militari per l’Ucraina”, concludendo che questo sarebbe “l’uso migliore per quel denaro”.
“Se l’Europa vuole poter difendere l’Europa, deve armarsi” tuonava, all’inizio della guerra in Ucraina, Emmanuel Macron. Olaf Scholz lo seguì immediatamente coi fatti: dopo appena tre giorni l’inizio del conflitto stanziò un budget per la difesa di ben 100 miliardi, contro i 47 miliardi dell’anno precedente.
Lo stesso Scholz però nei giorni scorsi ha chiaramente detto che non invierà mai truppe della Bundeswehr in Ucraina rispetto alla proposta di Macron, anzi non ha risparmiato anche una bacchettata al presidente francese invitandolo a inviare più armi. In effetti, la Francia ha inviato solo 533 milioni (0,2% del PIL) per il sostegno all’Ucraina, Berlino invece ha inviato a oggi circa 28 miliardi e risulta oggi seconda solo agli USA per il sostegno a Kiev.
Appalti congiunti, accordi offtake, acquisti di attrezzature…l’Europa sta dimenticando però l’elemento cardine delle guerre: il fattore umano.
Le attrezzature sono fondamentali ma senza uomini in grado di usarle sono semplici regali al nemico.
Una parte dei miliardi forse meriterebbe di essere spesa per la preparazione di combattimento del personale militare e la preparazione del più ampio numero possibile di civili come supporto agli eventi bellici.
Su questo punto ci sembra di essere molto indietro; non basta acquistare attrezzature sofisticate, è necessario avere soldati addestrati e una popolazione civile che possa essere impiegata in Patria per quanto attiene la difesa interna, sul modello svizzero. Lo sanno bene gli ucraini di quanto avrebbero voluto avere una popolazione civile pronta a combattere, e siamo costretti a sottolineare che in Ucraina la leva non è mai stata abolita. In Germania, Francia, Italia, Olanda, Portogallo, Regno Unito il servizio militare obbligatorio invece è stato abolito ormai parecchi anni fa. Gli europei non devono essere cittadini inermi ma risorse attive per la difesa.
L’Europa intera oggi è chiamata a stanziare risorse per preparare i suoi soldati e questa guardia civile in vista di quanto potrebbe accadere. O che accadrà.