Per la cura di Orlando Franceschelli, esce un libro di Karl Löwith (Il cosmo e le sfide della storia, Donzelli, Roma 2023, pp. LVI-160) che raccoglie quattro testi, appartenenti agli anni Sessanta del secolo passato, che ruotano tutti intorno al tema – di un’incidenza, oggi, più che mai stringente – dell’uomo nel suo rapporto con la natura in lui e fuori di lui: un tema di cui egli denuncia puntualmente la mancanza nel suo maestro Heidegger, in tutte le fasi della sua parabola speculativa, dall’analitica esistenziale di Essere e tempo fino alla “svolta” con cui viene messo esplicitamente a tema il problema dell’essere. Sia chiaro, non che in Heidegger manchi completamente qualsiasi riferimento al mondo della natura. Si pensi, ad esempio, al saggio su L’origine dell’opera d’arte. Solo che, per Löwith, esso non viene mai esplicitato a sufficienza, in funzione di una discussione adeguata e di una ricognizione propriamente critica. La sua preoccupazione è stata, infatti, sempre quella non di avvicinarsi alla natura speculativamente, ma di interrogarla a partire dal riconoscimento secondo cui la storia dell’uomo ha il suo luogo legittimo anche in essa. Cosa che lo porta a ripensare autori, come, ad esempio, Marx e Darwin, completamente distanti dall’orizzonte filosofico di Heidegger.
Ora, Löwith estende le sue riserve critiche da lui avanzate ad Heidegger anche ad altri grandi filosofi del Novecento, come, ad esempio, Jaspers e Sartre, anch’essi incapaci di «avere occhi per l’ordine proprio […] del mondo in se stesso». In riferimento ai tre autori appena menzionati, scrive: «Un ente […] che essenzialmente “e-siste” – in “situazioni-limite” o come una “fatticità gettata” o come un “buco” esistente “per sé” entro la totalità degli enti in sé – non può accorgersi del carattere cosmico del mondo. Può e-sistere soltanto come singolo isolato». Piuttosto che con Heidegger, Jaspers e Sartre, Löwith si confronta, invece, con Teilhard de Chardin, «il gesuita e paleontologo francese spesso ritenuto una sorta di Darwin cattolico», come lo definisce il curatore. Ne è testimonianza il saggio presente in questo libro: Teilhard de Chardin. Evoluzione, progresso ed escatologia. Quest’ultimo, nel quadro del suo teismo evoluzionistico, manifesta, infatti, l’intenzione di arrivare a Dio – aggiunge il curatore –, senza per niente trascurare «la stupefacente realtà e complessità del cosmo e del fenomeno umano al suo interno». Il punto è, però, che le sue teorie sull’evoluzione dell’universo non sono basate su dati interamente visibili, tant’è che egli fonda l’idea della convergenza finale di tutte le cose in Dio non su tesi accertate scientificamente, ma su presupposti metafisici e religiosi, quali, ad esempio, le fonti bibliche. Cosa che comporta l’abbandono del piano dell’argomentazione razionale e il salto al piano della speranza e della fede. In tal senso, in lui, «in realtà è l’attesa mossa da una fede ricolma di speranza [quel] che gli consente di “vedere” ciò che visibile non è».
Vediamo allora qual è la definizione di “mondo” che ci fornisce Löwith: «l’insieme di tutte le cose conosciute e sconosciute». Se è vero, infatti, che «in ogni cosa si manifesta qualcosa in quanto mondo», è nondimeno vero che quest’ultimo «non si lascia ridurre a ogni cosa che in esso è presente». È così che si può dire che il mondo «abbraccia ogni cosa senza poter essere colto in se stesso», che esso «è la realtà più grande e più ricca, e contemporaneamente è vuoto come una cornice senza quadro». Il mondo, inoltre, in quanto è un uno, non lo è certamente in senso numerico, giacché non sta lì davanti a noi tra diversi altri mondi, ma è «l’unico tutto di un solo mondo». Il senso della sua unicità è tale cioè che esso si definisce solo a partire da quella sua totalità che include in sé ogni possibile molteplicità. Sorge così la domanda: che cosa collega fra loro e tiene insieme, nel segno dell’unità del mondo, tutte le cose che sono? La risposta è: «un ordine nel quale ogni cosa è coordinata a un’altra». Ne discende che tutti gli esseri che vivono sulla Terra formano insieme a essa «un’unità vitale di ordine superiore, che si struttura come un sistema reciproco di coordinamento». Il punto-chiave sta proprio qui, ossia che l’uomo, per quanto disponga della capacità di e-sistere, nel senso letterale del termine, ossia di emergere o uscire fuori dal dominio della natura, resta sempre caratterizzato dalla sua appartenenza alla totalità del mondo naturale, nel segno di questo suo «coordinamento» con esso. E ciò anche se egli non ne è direttamente consapevole. Del resto, spetta alla stragrande maggioranza delle cose di accadere senza coscienza! A proposito dell’«ordine» di cui stiamo parlando, poi, esso non può essere, chiaramente, ora in un modo ora nell’altro, perché, se così fosse, non sarebbe più un «ordine». E, in quest’«ordine», qual è il posto occupato dall’uomo? È il vertice di tutta la creazione? Oppure è un virus della Terra?
Per recuperare una concezione “naturale” del mondo – concezione che, oggi, «è andata radicalmente perduta» – Löwith suggerisce di richiamarci a una più antica visione di esso. A quella greca, ad esempio. Qui, il mondo, in quanto kosmos, era visto come perfetto e bello, proprio in quanto esso costituiva una totalità armoniosa. Nella trattatistica sull’argomento, frequente è il paragone fra la struttura del kosmos e la struttura della polis. Come in quest’ultima, grazie alla costituzione politica, viene garantita l’unione fra uomini di diverse condizioni, così anche nel kosmos l’«ordine» che vi regna garantisce l’accordo fra elementi con tendenze divergenti. E anche per i Greci un tale «ordine» è necessario. Tant’è che essi parlavano del destino, come di ciò che «fa sì che ogni cosa sia come è: ciò che è adesso, ciò che è già stata e ciò che ancora sarà». «Il cosmo greco si rapporta all’uomo solo in quanto anche il mondo degli esseri ordinato secondo giustizia rinvia all’ordine del cosmo nella sua grandezza e nella sua totalità».
E veniamo così al nichilismo cosmologico che incombe fatalmente sui nostri tempi, che sottostanno al mito del progresso illimitato e in cui la natura è ridotta a mero oggetto d’uso a nostro piacimento. Löwith sa bene che noi, spiriti pensanti sovrani, in quanto produttori di storia, non potendo che pensare nell’orizzonte di essa, «non viviamo più nell’ambito del mondo naturale». Equiparando mondo e mondo umano, abbiamo finito per perdere così «l’unico mondo, quello che è più antico e durevole degli esseri umani». Il punto è, però, che, mentre il mondo fisico può essere pensato «senza fare alcun riferimento all’esistenza degli esseri umani», non così è quanto al rapporto degli uni rispetto all’altro. Ecco, dunque, la domanda che il filosofo tedesco si pone: «per noi c’è ancora un’istanza che possa costituire un limite al progresso in sé illimitato, oppure è inevitabile che l’uomo faccia tutto ciò che può fare? C’è ancora una misura della libertà per tutto e per nulla?». Ed ecco la sua perentoria risposta: «Ammesso che all’essere umano riuscisse di dominare il mondo della natura, allora l’essere umano non sarebbe più essere umano e il mondo non sarebbe più mondo».
La “Caduta degli angeli ribelli” dipinto autografo di Pieter Bruegel il Vecchio datato 1562, è un Olio su tavola che misura 117×162 cm ed è conservato al Museo reale delle belle arti del Belgio di Bruxelle | CC0