Claire Mc Cumhaill e Rachael Wiseman, due docenti universitarie inglesi, dedicano questo libro (Il Quartetto. Come quattro donne hanno riportato in vita la filosofia, tr. it. di L. Vanni, A. Mondadori, Milano 2023, pp. 447) a quattro filosofe che, nel secolo passato, animate da coraggio intellettuale, hanno saputo farsi strada in un ambiente dominato quasi esclusivamente da uomini. Si tratta dei seguenti nomi. Il primo, forse della più famosa di esse, è quello di Elizabeth Anscombe (1919 2001). Allieva di Ludwig Wittgenstein (1889-1951) è, senz’altro, un’autorità nel campo degli studi dedicati a questo filosofo, del quale ha tradotto, editato e commentato diverse sue opere. Viene poi, in quanto allieva della precedente, Philippa Foot (1920-2010), la quale, da critica dell’utilitarismo morale, ha sviluppato una prospettiva riconducibile a quel filone dell’etica contemporanea noto come “etica delle virtù”. Abbiamo infine Iris Murdoch (1919-1999), scrittrice oltre che filosofa, uno dei cui racconti fu indicato tra i cento migliori della letteratura in lingua inglese del XX secolo, e Mary Midgley (1919-2018), attiva, soprattutto, nel campo dell’etica ambientale.
L’alto profilo morale di queste quattro figure viene messo in risalto fin dalle pagine iniziali del libro, dove ci viene ricordato che, il 1º maggio 1956 all’Università di Oxford, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in diritto civile all’ex presidente americano Harry S. Truman, solo Elizabeth Anscombe si dissociò dal senato accademico e formulò un voto contrario, richiamandosi al fatto che Truman era proprio colui che aveva ordinato l’uso della bomba atomica su Hiroshima e su Nagasaki. Quanto alle altre tre, invece, ritenendo anch’esse di dover ripartire, in filosofia, dalle domande fondamentali – domande che, appena dieci anni prima, i neopositivisti logici avevano bollato come irrilevanti e prive di senso, in quanto cascami di un modo di pensare “metafisico” destinato, per loro, a scomparire –, provvedono così a ricollegare «l’etica, le scelte e le responsabilità individuali a “ciò che conta veramente”», ossia alla «realtà della vita umana nella sua dimensione interpersonale».
Nel 1953, chiamata a mettere a punto un intervento radiofonico per la BBC, intervento che sarà poi respinto, Mary Midgley scrive in una nota che tutti i grandi filosofi europei sono stati scapoli, per cui sembra quasi dire che il solipsismo, lo scetticismo e l’individualismo, caratteristici della nostra tradizione filosofica, forse, non si sarebbero manifestati se avessimo avuto pensatori dedicatisi ad avere una famiglia, a crescere dei figli e a vivere un’esistenza ricca di umanità. La figura di uomo che domina il nostro immaginario collettivo, l’eroe di tanti romanzi e di tanti libri di filosofia, è, infatti, un soggetto dotato sì di tante qualità, ma tale che paga il possesso di tutte queste con una sostanziale alienazione dalla propria natura, dal mondo che lo circonda e dagli altri esseri umani.
Va poi detto che le quattro filosofe furono, tra loro, anche amiche, condividendo, oltre che «riflessioni, anche stanze, vestiti e amori», a riprova di quanto fossero importanti, per loro, quegli intimi legami di affetto che nella tradizione – essenzialmente maschile – della filosofia occidentale sono stati, solitamente, snobbati e ritenuti di poco conto. «Attraverso gli occhi di queste amiche emerge un nuovo scenario. Il mondo che ci è familiare si trasforma in un ricco arazzo di disegni fra loro intrecciati […]. E noi, gli individui umani, le cui vite contribuiscono a forgiare e alimentare quei disegni e quegli elementi, torniamo a essere concepiti come l’animale la cui essenza è mettere in discussione, creare, amare. Siamo “animali metafisici”». In più, queste donne, nel loro dar vita a una «contronarrazione» rispetto alla storia istituzionale della filosofia del Novecento, con la loro attività, liberarono il campo non solo per altre donne, ma anche per uomini, il cui pensiero, di stampo più tradizionale, non era allineato con il corso della filosofia dominante. Pensiamo a Horace W. B. Joseph (1867-1943), ostile al formalismo nella logica e all’assunzione della matematica come modello per tutto il pensiero, a Robin G. Collingwood (1889-1943), ultimo esponente della scuola idealista, a Henry H. Price (1899-1984), il quale, oltre che di filosofia della percezione, si era occupato anche di parapsicologia, e a Donald M. McKinnon (1913-1994), noto per i suoi contributi alla teologia filosofica.
Non va trascurato, però, che c’è una precisa congiuntura storica che fa spazio a queste quattro donne, lasciando che esse potessero farsi strada nella carriera filosofica accademica: l’esplodere della seconda guerra mondiale che, sradicando dall’università tutti i “grossi calibri” della filosofia britannica, come Alfred J. Ayer (1910-1989), Gilbert Ryle (1900-1976) e John L. Austin (1911-1960), provvede a disperderli in qualche ente governativo o nei vari teatri di guerra. Ma, se non ci fosse stato tutto questo, le due autrici si chiedono se Elizabeth, Philippa, Iris e Mary, forse, non avrebbero affiancato i colleghi maschi nell’opera di spoliazione della filosofia di ogni poesia, metafisica e mistero o se si sarebbero lasciate alle spalle i loro studi, nella convinzione che la carriera accademica non era fatta per loro. In sostanza, per come andarono i fatti, queste quattro giovani donne furono in grado di restituire alla filosofia quell’identità che essa aveva avuto per secoli, così che, quando gli analitici o neopositivisti tornarono dalla guerra, esse «erano pronte a opporre loro un unico grande “no!”».
Torniamo, per un momento, all’episodio del 1º maggio 1956. Esso induce Elizabeth Anscombe e Philippa Foot, che la sosteneva, alla consapevolezza secondo cui in questioni di filosofia morale bisognava ricominciare da zero. Se un salone gremito di accademici oxoniensi togati aveva reso onore a colui che aveva ordinato uno dei massacri più orrendi della storia umana, vuol dire, allora, che la nozione di omicidio, nonché domande quali «cosa è giusto fare moralmente?», «a quali principi morali mi devo attenere?», «esiste un criterio oggettivo per la morale?» andavano ripensate radicalmente. «Quando le azioni umane si misurano con questioni di larga scala e le persone devono compiere scelte in circostanze anomale e difficili, la capacità di capire chiaramente ciò che si fa o di capire agevolmente cosa significhi non può essere data per scontata. […] È in questi momenti che la filosofia ha qualcosa da dire». Ora, l’esempio che, per i tempi odierni, ci viene da queste quattro donne è che, in un momento in cui stiamo cercando di riprenderci dalla crisi pandemica e che ci stiamo misurando con l’urgenza della crisi climatica, ciò che dobbiamo fare è proprio interrogare di nuovo la filosofia, concependola come un modo per orientarci e trovare una via nel complesso di una realtà sconfinata che trascende ognuno di noi.