Del libro che oggi prendiamo in considerazione è autore il filosofo francese François Jullien e si intitola: Riaprire dei possibili. De-coincidenza, un’arte di operare (a cura di R. Capra, Orthotes, Napoli-Salerno 2024, pp. 114). La vocazione politica di questo testo – e “politica” non in senso tecnico, ma in quello più radicale del termine – si manifesta subito, fin dall’inizio, laddove il suo autore parla del fatto che, nella situazione storica in cui ci troviamo, si è verificata «una rivoluzione silenziosa» che ha cambiato completamente il nostro rapporto nei confronti proprio della politica. Eravamo abituati, infatti, a teorizzare un modello migliore di società, per poi tentare di realizzarlo, operativamente, nella realtà. Ma tutto ciò ora non è più possibile, perché, «per modellizzare, bisogna innanzitutto poter isolare». E in che modo noi possiamo isolare qualcosa nel mondo “globale” in cui viviamo, dove tutto è «“connesso”, collegato, sovrapposto e dunque “complesso”»?
Senza dimenticare poi che grazie all’intelligenza artificiale cui oggi noi, in ogni circostanza, ricorriamo, non siamo più in grado di prospettare grandi piani che coinvolgano l’intera l’umanità, ma, potendo conoscere e analizzare una sterminata quantità di dati e di variabili, produrre solo un’ottimizzazione dei singoli aspetti del progetto “politico” che, di volta in volta, portiamo avanti. «Perciò la costruzione di un’idealità comune e condivisa si fa via via più difficile, quantomeno sul piano globale. […] Non abbiamo mai esercitato tanta presa e tanto controllo sul mondo e allo stesso tempo provato così intensamente la sensazione che il mondo ci sfugga».
E in tutto ciò neanche la natura può più offrirci delle rassicurazioni, viste le prospettive ecologiche inquietanti che gravano sul futuro della nostra Terra. Allora, che fare? Ebbene, è arrivato il momento di «“fare” altro». Di ricorrere a «una strategia innovativa […] più obliqua» e «più discreta», che punti «a rilevare, più che a progettare», cercando – «localmente» e «minimamente» – di «scoprire cosa ostruisce il presente, cosa impone un blocco, in modo da “incrinarlo” […]; e incrinandolo, “riaprirvi dei possibili”. Dei nuovi possibili di cui non si sa in anticipo cosa saranno. […] Ma che comunque […] possono disporre di risorse ancora impreviste, per riaprirci un avvenire, e partendo da questo stesso presente». In altre parole, dopo aver individuato quel che “blocca” lo stato di cose in cui ci troviamo, si tratta di far sì che proprio ciò che versa in questa situazione passiva di adeguazione a se stesso, smettendo noi di aderirvi, possa di nuovo dispiegarsi, per essere così aperto verso un avvenire, fino a questo punto mai considerato.
Abbiamo usato il termine adeguazione. Ma non è, forse, proprio in questo modo che è stata concepita, tradizionalmente, la verità? Ossia come conformità o adeguazione fra intelletto e cosa. Il punto è che questa definizione, una volta raggiunta la piena corrispondenza fra i due termini che sono chiamati in causa, si chiude su se stessa e non si lascia più interrogare: si blocca, si immobilizza e non va più oltre. Appellarsi alla «de-coincidenza» significa allora far leva sul fatto che «è dall’intimo di questo positivo soddisfatto, saldo nella propria positività, […] che viene la possibilità di affrancarsi», che, poiché questo stato di totale aderenza a se stesso non è più sostenibile, è dal suo stesso interno che ci raggiunge l’istanza volta a staccarsene, per rimetterlo in discussione. Per cui, è da uno «scarto» che si produce all’interno di questa situazione fattasi statica e improduttiva che «emerge l’efficacia del nuovo». E questo perché, «quando l’adeguazione si compie incontra simultaneamente il proprio limite, il suo punto di arresto».
Quello di «de-coincidenza» è così un concetto «immediatamente valido dal momento in cui cominciamo a entrare nella sua logica», ossia «immediatamente operativo». Qui, tutto dipende, ovviamente, dal modo in cui intendiamo il termine “concetto”: non come una maniera panoramica di vedere le cose, ma come uno strumento di cui si serve il pensiero al fine di agire e di pensare. L’esempio che ricorre a questo punto è quello relativo all’atomismo antico, nella versione di Epicuro, poi ripresa da Lucrezio nel De rerum natura, dove, nel segno della nozione di clinamen, agli atomi viene consentito di deviare dalla propria traiettoria di caduta verticale, ossia di produrre uno «scarto» rispetto a quell’orbita vista come a loro adeguata, così che, spiegando l’origine naturale del mondo, viene anche data una giustificazione corrispondente della «possibilità della Libertà».
Ma, andando ancora più alla radice, l’uomo non si è fatto, forse, tale proprio in virtù di uno «scarto» rispetto alla sua originaria coincidenza con se stesso? Non si è promosso “de-coincidendo” dalla sua adeguazione con la natura – per effetto di quello che è stato, più che un mero «ad-attamento», un «ex-attamento» –, «aprendo così dei nuovi possibili da cui, un passo alla volta, si è dispiegata l’umanità»? Insomma, non è proprio a queste condizioni che l’uomo, emergendo dal suo confinamento originario, è cominciato ad ex-sistere?
Jullien nota a questo punto come la «de-coincidenza» sia un qualcosa di cui facciamo esperienza in tutti i momenti della nostra vita. Ciò per cui possiamo dirci “vivi” è dato cioè proprio dal fatto che noi disfiamo continuamente la coincidenza a cui tende la nostra vita e dalla quale essa è sempre minacciata, senza neanche che ce ne accorgiamo. Due esempi sono costituiti dall’arte e dal pensiero. Nel senso che come un artista non è veramente tale se non «de-coincide con l’arte già fatta», con ciò che, al momento, di volta in volta, attuale, è riconosciuto e ammirato come “arte”, così un pensatore non pensa se non nella misura in cui «de-coincide dal già pensato, da quanto già approvato nel pensiero». In arte e in filosofia tutti gli -ismi denotano un qualcosa che, all’inizio era «de-coincidenza», ma che poi col tempo finisce per imporsi come norma: norma che bisognerà «incrinare dall’interno per rinnovarla in modi nuovi».
Ma ancora un altro esempio, al riguardo, lo si può ricavare dalla psicoanalisi. L’analista non aiuta, forse, il paziente, affetto da nevrosi o psicosi, a “de-coincidere” dall’identificazione ossessiva con il proprio male? E se il secondo oppone resistenza alla cura è solo perché la sua convivenza con questo male lo rassicura, nel momento stesso in cui lo fa soffrire. All’analista non resta così che una via da seguire: «operare indirettamente, in maniera obliqua e processuale», spingendo il paziente a «dis-aderire da ciò che è divenuto il suo conformismo», per far sì che, provvedendo ad aprire una «crepa» nel blocco che in lui si è formato, possa così «ex-attarsi da se stesso».
Giungiamo per questa via al motivo per cui la «de-coincidenza» può essere vista come la vera e propria chiave di volta di un’«etica dell’esistenza», dal momento che essa si mostra capace di rendere ragione sia del rapporto con il sé sia del rapporto con l’Altro. Se, infatti, è solo “de-coincidendo” da se stessi che la vita può dispiegarsi in e-sistenza, è solo “de-coincidendo” da se stessi che ci è anche dato di incontrare veramente l’Altro. Perché, fin quando io «non de-bordo da me stesso, […] non posso nemmeno ab-bordare l’Altro – non posso creare un passaggio verso l’Altro […]. Ecco perché la filosofia classica, non sapendo pensare questo sé de-coincidente da sé, non ha potuto pensare l’incontro».
Jullien passa poi a svolgere il motivo secondo cui «un’idea, diventando coincidente, diventa anche ideologica». Nel senso che, appena si stabilizza nella propria positività e si impone per il proprio conformismo, finisce così anche per spacciarsi per “evidenza”. Con la conseguenza che essa non viene mai criticata e messa in discussione, proprio perché non viene più percepita come un’opinione fra altre possibili. Ma se non viene mai criticata e messa in discussione, non viene più neanche pensata, inducendo così a «un’osservanza che sfugge alla riflessione».
Eppure, anche la filosofia comincia, e per lungo tempo si protrae, nel segno di una celebrazione della coincidenza. Della coincidenza fra il pensiero e la struttura dell’essere, fra lo spirito pensante e l’oggetto pensato, fra la coscienza e ciò che è presente ad essa. In tal modo, il concetto di «de-coincidenza» viene a distinguere due epoche nella storia del pensiero, suddividendola fra un prima e un dopo. Fra un prima: l’epoca, detta “classica”, in cui viene posto «un grande Oggetto o Referente con cui il pensiero deve coincidere (Essere – Dio – Natura)», e un dopo: l’epoca, detta “moderna”, in cui la filosofia, lavorando a disfare questo «grande Oggetto», si lancia così nell’avventura di “pensare altrimenti”.
Foto F. Jullien © Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons