Il deputato della Lega, Jacopo Morrone, ha recentemente criticato lo sciopero del 27 febbraio di una parte della magistratura, sostenendo che “non ha giovato agli italiani” e che i magistrati stiano diventando una “casta intoccabile”. Apprezziamo l’invito al confronto che il deputato sollecita, ma le sue osservazioni meritano una riflessione più profonda, considerando le reali motivazioni che hanno spinto una parte della magistratura a scendere in piazza.
In primo luogo, è fondamentale ribadire che lo sciopero della magistratura non è un atto contro i cittadini, ma un segnale di preoccupazione rispetto a riforme che rischiano di compromettere l’indipendenza della giustizia. Se c’è un aspetto che davvero ha bisogno di una riforma, è proprio quello relativo al rispetto della separazione dei poteri e alla difesa della terzietà della magistratura. La giustizia deve essere garantita a tutti, senza alcuna interferenza politica, e lo sciopero è stato una forma di protesta contro il rischio di ingerenze che potrebbero minare proprio l’imparzialità del sistema.
Ma c’è di più. Il problema non è solo tecnico, come potrebbe sembrare a una lettura superficiale, ma squisitamente politico. Questa riforma non sembra avere come obiettivo il miglioramento dei tempi dei processi, né l’effettiva garanzia di condanna o assoluzione in tempi ragionevoli. Piuttosto, appare come un disegno che va oltre l’ottimizzazione del sistema giudiziario, mirato a “chiudere i conti” con una parte della storia politica italiana, in particolare con il periodo di Tangentopoli e le sue conseguenze. Non è un caso che una delle forze politiche più intransigenti a favore di questa riforma sia proprio quella guidata da Giorgia Meloni, la quale sembra, con questa riforma, realizzare materialmente la volontà politica espressa in passato da Silvio Berlusconi. È un disegno che non si limita a riformare, ma che rischia di minare il principio di imparzialità e la stessa fiducia dei cittadini nella giustizia, trasformando il sistema giudiziario in uno strumento di vendetta politica.
In questo contesto, il Partito Repubblicano ribadisce con forza l’importanza dell’etica della responsabilità, che è da sempre il nostro faro e che si radica profondamente nel Mazziniano senso del dovere. La politica non può mai essere uno strumento per vendette personali o per risolvere conti con il passato. Chi governa ha il dovere di anteporre l’interesse generale alla propria agenda politica, impegnandosi a garantire riforme che siano giuste, equilibrate e mirate al bene comune. Il rispetto per la legge, per i diritti dei cittadini e per l’indipendenza della magistratura non può essere sacrificato in nome di battaglie ideologiche o personali.
Detto ciò, non possiamo ignorare che le riforme che davvero riguardano i cittadini, che impattano direttamente nella vita quotidiana delle persone, sono quelle che riguardano la giustizia civile e la velocità dei processi. È impensabile che una causa per una banale disputa sui confini, che potrebbe riguardare qualsiasi cittadino, continui ad andare avanti per dieci anni senza giungere a una conclusione. In questo caso, non si tratta solo di efficienza, ma di una questione di giustizia vera e propria. Ogni giorno che passa senza che il sistema giuridico si evolva e diventi più tempestivo, il diritto di accesso alla giustizia per i cittadini diventa sempre più una promessa vuota. Questo è il tipo di riforma che il nostro sistema legale necessita, non una riforma che rischia di compromettere la sua indipendenza e la sua credibilità.
Un altro punto fondamentale è che, per chiedere con forza una riforma della giustizia, bisogna aver rispettato la legalità in tutto e per tutto. Prima di definire “casta” la magistratura, è bene riflettere su chi, da condannato in primo grado, non si dimette pur avendo il diritto di non essere considerato colpevole fino all’espletamento di tutti i gradi di giudizio. La vera etica della responsabilità e il senso del dovere istituzionale devono portare un ministro condannato in primo grado a dimettersi, proprio per evitare che l’integrità dell’istituzione venga messa in discussione. Chi non lo fa, e chi difende chi non lo fa, non ha alcun titolo per definire “casta” la magistratura, né tantomeno per mettere in pista una riforma della giustizia che, più che una misura di efficienza, sembra una punizione nei confronti dei magistrati. È una riforma che dovrebbe essere in favore dei cittadini e della democrazia, ma che rischia di diventare un attacco strumentale contro una parte fondamentale del nostro sistema di giustizia.
L’invito al “dialogo” che Morrone suggerisce è sacrosanto, ma deve essere inteso come un vero confronto tra tutte le forze politiche e le istituzioni competenti, al fine di trovare soluzioni condivise. Non si tratta di alzare barricate, ma di rispettare la funzione di chi opera quotidianamente per garantire che la giustizia sia davvero giusta per tutti. L’alto profilo istituzionale non si misura solo nel sedersi a un tavolo, ma nel garantire che le riforme siano giuste, equilibrate e, soprattutto, che non mettano a rischio il nostro sistema di giustizia.
La strada delle riforme è sicuramente fondamentale, ma occorre una visione lungimirante che tenga conto delle reali necessità del sistema giudiziario, rispettando l’indipendenza della magistratura e il diritto dei cittadini a un processo equo. Invece di un dibattito polarizzato, è urgente una discussione seria e approfondita che rispetti le diverse sensibilità e contribuisca a un miglioramento reale del sistema giuridico, senza compromettere i principi democratici fondamentali.
nessun mette in dubbio che la giustizia abbia bisogno di riforme , ma l’impressione che ho mi porta a pensare che il governo cerchi di impedire ai magistrati di poter porre in essere indagini ed eventuali condanne ai politici.