Corrono nel 2022 i duecento sessanta anni esatti dalla pubblicazione dell’opera di Jean Jacques Rousseau “il Contratto sociale”, destinata a segnare tutta l’epopea democratica che si è aperta nel mondo occidentale. “Il Contratto” precede infatti i due principali eventi della storia contemporanea, la rivoluzione americana e quella francese. Dalla seconda metà del ‘900 si è letto “il Contratto” prevalentemente in riferimento alla Rivoluzione d’ottobre, quando nessun bolscevico, Lenin e Trotskij inclusi, posseggono una conoscenza diretta del pensiero di Rousseau. I marxisti sono poi stati bravissimi a scaricare su Rousseau i guasti di una società che appunto, Rousseau, nemmeno lo conosceva, complici ovviamente i bonzi del pensiero liberale, che non pensarono un bel niente.
Il primo di questi fu il professor Jacob Talmon, che giustamente ferito e disgustato dal totalitarismo europeo commise lo stesso errore di Popper, ovvero di cercare le cause di un sistema degenere, in pensatori che nessuno aveva mai studiato. Anche il lettore più sprovveduto dovrebbe capire che né Stalin, né Hitler, né Mussolini, avessero una conoscenza appropriata di Rousseau, o di Hegel, figurarsi di Platone. Eppure, Popper è riuscito nell’impresa formidabile di far cadere su Platone ed Hegel le colpe di fascismo e comunismo che al limite hanno come punto di contatto il pensiero di Marx, ovvero un critico di Platone ed Hegel. In ogni caso anche Marx conosceva appena Platone e diremmo piuttosto male, Hegel. Marx è un allievo diretto di Schelling, non di Hegel. Talmon, per lo meno è più accorto di Popper e limita le sue accuse al modello illuministico francese. Talmon attacca l’illuminismo, come gli storici della Restaurazione praticamente, prendendo di mira il messianismo di Helvétius, d’Holbach, Morelly, Mably, a cui lega e non si capisce perché il principale avversario di tutti loro, Rousseau. Poi Rousseau, questo è vero, infiamma la platea giacobina con Sieyès e Saint-Just, e si spinge fino alla cospirazione comunista di Babeuf. A questo punto il gioco è fatto. Da Babeuf, cioè da un pupazzo del terrorista Fouchè, si scavalcano miglia e secoli per piombare nella steppa siberiana dritti nel gulag. Un bel salto, dove si perde di vista il punto di partenza, ovvero che Rousseau non è un pensatore messianico, quello era Marx. Rousseau è un pensatore scettico.
Il modello democratico tratteggiato ne “Il Contratto” è visto come una soluzione alla società autoritaria di difficilissima realizzazione. Ovvero, Rousseau contesta con certezza la società assolutista quale al suo tempo viene esaltata da Hobbes, ma diffida del rimedio offerto. “La democrazia è qualcosa per gli dei, non per gli uomini”, scrive perché, malinconicamente sa, che in tutta la storia l’unica esperienza democratica conosciuta riguarda il breve periodo della Roma repubblicana una volta cacciati i Tarquini. Subito dopo Roma si ritrova nella guerra civile. E’ questo il presupposto storico politico di Rousseau che concretissimo viene interpretato, Simone Weil ad esempio, come astratto. Ma almeno Simone Weil sfuma quello che Talmon accentua.
Agli studiosi liberali sarebbe stato d’aiuto una maggiore riflessione sulla storia rivoluzionaria. Jonathan Israel è convinto che l’influenza di Rousseau su Robespierre porti diretta al Terrore. Eppure Rousseau era venerato da madame Roland e da Barnave, cioè dalle prime vittime del Terrore. Tutto il mondo giacobino si appropria di Rousseau, e Condorcet lo rivendica contro Sieyés, proprio nella Costituente sul diritto di espatrio. Trattandosi di un “contratto”, appunto, le parti hanno una dialettica. E’ incredibile che i nostri amici liberali non l’abbiano compreso, convinti che vi sia la remissione dell’individuo allo Stato, quando pure questa è sempre volontaria. Se vogliono un esempio di un pensatore in cui invece lo Stato prevale sull’individuo, lo trovano in Locke, nel primo dei suoi due trattati sul governo. Ma non c’è niente da fare, per loro era Locke il liberale, non Rousseau. Avevano letto, senza capire, “il Contratto sociale” e non avevano mai aperto “Emile”, che pure è molto più semplice. “Il primo di tutti i beni, non è l’autorità, ma la libertà”. Ecco Rousseau.
Vizille, Museé de la Révolution française