Giusto ieri il New York Times ha riportato le parole del Segretario del Tesoro Statunitense, Scott Bessent il quale ha suggerito ai Paesi colpiti dai dazi di “mantenere la calma”. Questo perché “ad un certo punto, il presidente Trump sarà pronto a negoziare”. Dichiarazione contraddetta in un’intervista successiva da Peter Navarro, consigliere commerciale del presidente. Navarro ha detto che non ci sarebbero state negoziazioni. La verità? Alla Casa Bianca è in atto un classico della sceneggiatura hollywoodiana, ministro buono, consigliere cattivo. Si aggiungono battute fuori copione, per cui Musk avrebbe detto di Navarro, semplicemente, “è un cretino”. Tralasciando che lo stesso Musk sarebbe dato in partenza. Persi centocinquanta miliardi in poche settimane, forse è meglio tornare agli affari.
Da un quadro di questo genere viene da chiedersi se davvero Trump sa quello che sta facendo o tutto si riduce ad una affermazione di bullismo. Tutto si può credere, una sola cosa va presa per certa, a Trump non piacciono i cali in borsa. Anche se fa buon viso a cattivo gioco, una reazione della borsa come quella avvenuta, un crollo da 11 settembre, non era prevista. Tanto che gli analisti si stanno chiedendo semplicemente se misure come quelle annunciate dall’amministrazione statunitense siano poi sostenibili, o se presumibilmente sarà fisiologico vederle declinare.
Morale in questa fase ciascuno ha diritto di esprimere il suo parere su Trump, ma nessuno è in grado di dire se questo segua una qualche strategia politica economica o sia perseguitato da una qualche idea fissa. Questa è lo stato dell’arte, legato alla fiducia o alla sfiducia nel personaggio. Donald ha infatti un lungo percorso nella vita americana, ed è conosciuto almeno dal 1987, quando votava democratico e non amava Reagan. Fu allora che fece un’intervista a favore dei dazi contro una presidenza che voleva il libero mercato. Come si vede dai tempi del colbertismo, la materia dazi è contraddittoria, non solo perché non è facile stimarne esattamente gli effetti, ma perché gli stessi che li propongono, poi cambiano idea, così come quelli che li avversano, li adottano. Roosevelt mantenne quelli messi dal suo predecessore, la sua presidenza sostenne il welfare all’insegna del protezionismo. Poi li toglie, e pure inizia una guerra commerciale con il Giappone con l’embargo petrolifero. Ancora gli storici discutono se il Giappone esasperato, venne costretto alla guerra. In qualunque epoca trovi sempre qualcuno disposto ad accusare gli Stati Uniti d’America.
Anche oggi, come ieri, l’Asia assume una maggiore rilevanza dell’Europa per gli Usa. La mole commerciale fra l’America ed il continente asiatico è superiore. E pure paesi asiatici, come gli europei si sono disperati per i provvedimenti di Trump e hanno reagito in maniera diversa. La Cina aveva già pronti i controdazi nel cassetto, il Vietnam li ha subito tutti azzerati, il Giappone vola a Washington per negoziare. Bisogna quindi anche considerare una questione cinese che concerne la presidenza Trump.
In un contesto simile attenzione a parlare di spaccatura dell’occidente, di disgregazione dell’Unione europea. Mai il bersaglio vero di Trump fosse la Cina con cui l’America vuole iniziare un braccio di ferro commerciale. Reagan da protezionista, ebbe comunque il problema del surplus commerciale del Giappone e riuscì a spuntare un trattato per cui Tokyo autolimitava la sua produzione. In più Reagan aumentò il valore del dollaro. Così iniziò il declino del sol levante, una seconda volta, senza esiti catastrofici per la verità. Non è detto che Trump riesca allo stesso modo a piegare la Cina. Il quadro strategico che dovremo verificare nei prossini mesi stabilirà l’autentico stato dei rapporti internazionali. Non si tratta di essere attendisti, ma di seguire eventi complessi con una meticolosa prudenza.
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