Il libro di John Sellars, studioso inglese di filosofia antica, cui oggi prestiamo attenzione (Sette brevi lezioni su Aristotele, tr. it. di A. Taglia, Einaudi, Torino 2024, pp. 128), fa ricorso a un modulo espositivo che l’autore ha già usato in due precedenti occasioni: in Sette brevi lezioni sullo stoicismo (2003) e in Sette brevi lezioni sull’epicureismo (2022). Esso inizia ricordandoci come fare filosofia è, per lo Stagirita, «l’unica via per una vita pienamente felice. Una vita del tutto priva di questo tipo di attività intellettuale quasi non merita, a suo giudizio, di essere vissuta». Obbligato è perciò il richiamo a quel celebre passo con cui inizia la Metafisica: «Tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza», dove non si tratta, per noi, solo di raccogliere informazioni intorno alle cose che ci circondano, ma di cercare di rendere ragione di esse, di comprenderle. «Essere umani significa [per Aristotele] voler sapere le cose».
L’intenzione che Sellars persegue in questo libro è di fornire dei ragguagli essenziali circa l’intera enciclopedia delle scienze filosofiche di Aristotele, per cui, dopo l’esposizione dei contenuti della sua metafisica o «filosofia prima», come «studio delle caratteristiche più generali e fondamentali di tutto ciò che esiste», si passa all’esposizione della sua filosofia della natura, la quale fa leva sull’osservazione diretta degli esseri viventi, quali, in parte le piante ma, soprattutto, i piccoli animali. È su questo terreno che Aristotele matura la sua nozione di «forma», intesa come ciò che, esistendo all’interno di tutto ciò che ha un aspetto particolare, e non autonomamente, come per Platone, si riferisce non solo alla sua struttura, ma anche, e soprattutto, alla sua funzione. Il che lo porta a teorizzare l’integrazione perfetta che vige tra la «forma» stessa e la materia di cui sono costituite le cose.
Visto che sono, dunque, gli organismi viventi «a rappresentare la sfida più grande per chiunque cerchi di comprendere la natura», essi sono, pertanto, ciò che, per primo, «dobbiamo riuscire a spiegare». E spiegare perché il fatto che essi vivono significa vederli animati da uno stesso principio strutturale che trasmette loro appunto la vita: l’anima, intesa, da Aristotele, in senso non spirituale, ma eminentemente biologico. Sottolineando come lo Stagirita respingesse nettamente l’idea che le strutture degli organismi fossero il mero prodotto del caso, dal momento che la loro forma è, per lui, al pari di un’informazione trasmessa dal genitore alla prole, Sellars arriva ad affermare che egli ha avuto un’«idea embrionale del dna». In tal senso, Aristotele studioso della natura e dei piccoli animali avrebbe prefigurato molti dei motivi che oggi sono al centro non solo della genetica, ma anche della biologia dello sviluppo, della fisiologia, della neurofisiologia, della biochimica e della biologia evoluzionistica.
Nel segno della concezione secondo cui l’uomo si distingue dagli altri animali per il fatto che egli esplica la sua attività «secondo ragione (logos)», Sellars passa poi a esporre il contenuto dell’opera logica di Aristotele, quale viene presentata nei cinque testi che costituiscono l’Organon. Avendo già acquisito che, per lo Stagirita, l’uomo è quell’essere che aspira «per natura alla conoscenza», è proprio qui che viene stabilito «come fare per ottenerla in modo sistematico». Non solo, ma egli distingue anche fra ragionamento apodittico o dimostrativo, il solo che può essere detto scientifico, e ragionamento dialettico, il quale, facendo leva su opinioni largamente condivise, è più adatto per mettere a fuoco questioni etiche o politiche, come, ad esempio, che cos’è la giustizia.
Sellars passa così a prendere in esame la concezione politica di Aristotele, la quale muove dal noto principio secondo cui l’uomo è un animale naturalmente sociale. Nel discende che la polis o città-stato è, per lui, l’organizzazione politica ideale: quella che, realizzandosi appunto in modo naturale, «consente ai suoi membri di vivere una vita buona», ossia non concentrata esclusivamente sulla sussistenza, ma tale che si esplica in una libera dedizione all’attività della ricerca intellettuale. Certo, tutto ciò confligge con l’altra veduta dello Stagirita, secondo cui alcune persone possono essere considerate legittimamente come degli «schiavi per natura». Il punto è però che, con quest’ultima espressione, egli intenderebbe un uomo non tanto assoggettato a un altro, quanto non in grado di governare se stesso, che non dispone di un pensiero razionale autonomo, quali sono le persone di ridotte facoltà mentali.
Ricordandoci come, ai tempi di Aristotele, «[u]no dei vertici della vita culturale ateniese era rappresentato dal teatro, tanto la tragedia quanto la commedia», Sellars passa poi a occuparsi della Poetica dello Stagirita, un’opera in due libri, di cui solo il primo, dedicato all’analisi della tragedia, ci è pervenuto, mentre l’altro, andato perduto, era dedicato, molto probabilmente, all’analisi della commedia. Come si sa, il fulcro della concezione estetica di Aristotele è dato dal concetto di «imitazione (mimesis)», intesa come rappresentazione di persone in azione. Egli spiega il piacere che proviamo nell’assistere a un tale tipo di rappresentazioni con il fatto che noi, fin da bambini, impariamo proprio guardando e imitando il comportamento degli altri. Il che è una prova ulteriore della nostra natura di animali sociali che «cercano di comprendere la psicologia umana». Con la stessa meticolosità con cui lo Stagirita studia gli animali e le altre forme del mondo naturale, egli si avvicina anche al dramma, di cui identifica le diverse componenti strutturali, delle quali la più importante è il racconto. «Il dramma non riguarda persone o caratteri come tali: riguarda azioni e storie». Azioni e storie imperniate su cambiamenti repentini della sorte e tali che gli spettatori avvertono che tutto ciò potrebbe capitare anche a loro. «È questa consapevolezza a dare al dramma il potere di toccare le nostre emozioni». Ma affinché un racconto sia buono, esso richiede anche una certa unità, nel senso che deve narrare un’azione compiuta, la quale, muovendo da un principio, perviene a una naturale conclusione, così che, risolvendosi l’intreccio della storia, gli spettatori rimangono anche soddisfatti.
Abbiamo visto, fin qui, come Sellars abbia incrociato più volte il concetto di «vita buona» in Aristotele, concetto che viene messo a fuoco nella parte finale del testo, laddove si chiede: qual è quel bene che, per lo Stagirita, gli uomini perseguono per se stesso e non in vista di altro e che, pertanto, può essere definito come “sommo”? La risposta è: la felicità (eudaimonia). Termine che «si può rendere con “benessere”, “prosperità”, o semplicemente “vita buona”». Tornando a ragionare da biologo e identificando, tra loro, felicità e funzione, Aristotele intende per «vita buona» quella condotta da un uomo che «pensa e agisce razionalmente», perché, «quando facciamo questo, stiamo funzionando come dovremmo in quanto esseri umani». Il che è confermato anche dal suo concetto di virtù (arete), il quale non ha un’accentuazione prettamente morale, ma, significando piuttosto “eccellenza”, sta proprio per «qualcosa che svolge bene la sua funzione».
Il libro si chiude ricordandoci come Aristotele, nell’ultima fase della sua vita, si dedichi alla fondazione della sua scuola: il Liceo, un luogo dove si raccoglievano un piccolo gruppo di individui dagli interessi scientifici comuni, ossia che condividevano la passione per una vita consacrata alla ricerca. È qui, dunque, che egli può mettere in pratica il suo principio, prima incontrato, secondo cui «[t]utti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza», cosa che, per lui, significa «essere umani nel modo più pieno possibile».
Hans Brosamer, Aristotele e Fillide | CC0