L’ onorevole Luigi Marattin meriterebbe più di una semplice intervista dal momento che esprime un’elaborazione di pensiero capace di ravvivare una vita politica piuttosto standardizzata verso il basso. Comunque almeno abbiamo avuto l’occasione di riaprire un confronto di livello per la ripresa della stagione parlamentare.
Abbiamo appena letto sul Corriere della sera ll senatore Renzi proporre all’opposizione un partito all’americana, Lei che lo conosce meglio di noi, Renzi vuole tornare nel partito democratico?
Non credo di avere le capacità per decodificare le intenzioni altrui, specialmente in questo caso. Mi interessa di più contestare l’idea, che ciclicamente ritorna nel dibattito politico italiano e a cui io stesso ho per un breve periodo creduto, che il nostro spazio politico possa modellarsi verso quello anglosassone, in particolar modo americano. In quei paesi vi sono due caratteristiche che da noi, a mio modo di vedere, non solo sono totalmente assenti ma non possono neanche essere approssimate. La prima è l’esistenza di una solida tradizione bipartitica: laburisti (o “Partito Democratico”) e conservatori (o “Partito Repubblicano”) sono le uniche culture politiche esistenti con la lodevole eccezione – su cui tornerò – dei libdem britannici. La seconda è un sistema elettorale totalmente maggioritario (anch’esso presente da un lasso di tempo che si misura in decine o addirittura centinaia di anni), che favorisce notevolmente la divisione dello spettro politico in due partiti. Queste due caratteristiche sono assenti nel nostro paese. Non abbiamo mai avuto solo due culture politiche, ma almeno cinque: quella comunista, quella socialista, quella cattolico-popolare, quella repubblicana-liberale e quella di destra sociale. E certamente non abbiamo mai avuto un sistema elettorale maggioritario: anche l’esperienza più vicina a quel modello (il cosiddetto “Mattarellum”, in vigore dal 1993 al 2005), aveva un 25% di quota proporzionale che nei fatti era politicamente prevalente, favorendo la ri-frammentazione politica dopo il momento della consultazione elettorale. Ecco perché ogni ambizione di trasformare il nostro sistema politico sul modello di quello anglosassone è del tutto velleitario. In quei sistemi, le caratteristiche sopra richiamate rendono naturale l’esistenza di due grandi partiti – uno conservatore e l’altro progressista – all’interno dei quali avviene, tramite momenti di contendibilità interna, la sfida tra le varie anime. Ma nel momento in cui una prevale sull’altra, l’orientamento risultato vincente ha piena agibilità per connotare l’impostazione politica di quel partito. Nel Labour Party britannico, per fare un esempio, ad ogni congresso l’area riformista sfida quella più socialista. Ma quella che vince, governa il partito fino al congresso successivo. Da noi quando si è provato a replicare l’esperienza di un grande partito plurale con contendibilità interna (il Partito Democratico), il risultato è stato che un minuto dopo il congresso il nemico principale della minoranza interna diviene il segretario appena eletto, invece del leader dello schieramento avversario. Per tutte queste ragioni, penso sia solo un’illusione, almeno nel breve-medio periodo, pensare di far evolvere il nostro sistema verso un modello anglosassone.
Secondo la sua analisi sarebbero dunque illusorie le condizioni per trovare un’intesa fra tutte le opposizioni. Ma non crede che potrebbe lo stesso essere utile un’alternativa al paese composta nel modo in cui propone Renzi?
L’attuale opposizione è divisa in due culture politiche estremamente diverse. C’è quella che a livello internazionale guarda a Melenchon, Alexandra Ocasio-Cortez e Bernie Sanders (costituita da Avs, la gran parte del M5S e del PD), che rappresenta un’offerta politica di stampo socialdemocratico, movimentista ed ecologista tradizionale. E poi c’è un’offerta politica liberal-democratica (per intenderci, quella che dalle urne del 2022 è uscita come Terzo Polo) che ora è a pezzi, a causa sia della sciagurata rottura di quell’esperienza nell’aprile 2023 e degli eventi conseguenti. Io sono convinto che queste due offerte politiche rappresentino impostazioni (culturali, prima ancora che politiche) estremamente diverse tra loro, che non sono sommabili solo sotto la bandiera dello “altrimenti vince la Meloni”. Per spiegare il mio punto di vista su queste differenze, e per motivare la necessità innanzitutto culturale della nascita di un partito liberal-democratico e riformatore in grado di essere autonomo dai due poli, ho scritto un libro. Si chiama “La Missione Possibile”, edito da Rubbettino, e uscirà il prossimo 13 settembre.
Bene, visto che il libro me lo ha già inviato in bozza, lo leggo e le chiederemo un’altra intervista in occasione della sua uscita, mentre adesso avrebbe voglia di spiegarci su cosa si fonda il conflitto Renzi Calenda e se pensa che si possa mai ricomporre ancora una volta?
Temo sia un esercizio del tutto inutile. Preferisco guardare avanti.
Chi ha una lunga tradizione politica sulle spalle tenderebbe a spiegarsi la traiettoria di Italia viva come una crisi del lib lab risolta spostandosi verso il lib dem. La domanda è se adesso siamo anche alla crisi del lib dem? In questo caso, cosa resta da fare?
Italia Viva nasce cinque anni fa prendendo atto dell’impossibilità di costituire un’area lib lab (per motivi probabilmente non dissimili da quelli che le ho esposto alla prima domanda) e con l’obiettivo di far nascere una formazione politica libdem. Anche questo obiettivo è fallito, e su questo punto in questa estate si è consumata una rottura tra me e gli amici di Italia Viva. Loro pensano che questo fallimento sia la prova dell’inesistenza di uno spazio centrale, io penso che sia invece solamente la prova del fallimento dell’esperienza dei piccoli partiti personali dell’area centrale e del modo di condurli (e anche di questo parlo nel mio libro). Come conseguenza, Italia Viva si appresta a rientrare nello schieramento di centrosinistra, una scelta però che non è condivisa da moltissimi di noi. Anche perché non è passata da una discussione interna franca e ampia, ma da un’intervista al Corriere della Sera del Presidente Nazionale, che l’ha così comunicata senza possibilità di discussione o di appello. Io, e tanti altri, in uno spazio centrale crediamo ancora e intendiamo costruirlo. Prima citavo i libdem inglesi, che nelle condizioni più difficili del mondo (la legge elettorale più maggioritaria del pianeta e una centenaria tradizione bipartitica) a inizio giugno hanno portato a casa il 12,2% dei consensi e 71 parlamentari. O potrei citare la Francia che, col doppio turno, ha una legge elettorale un po’ meno maggioritaria ma che sperimenta una forte tendenza alla polarizzazione. Eppure un partito centrale, sempre a giugno, ha preso più del 20%, ed è tra l’altro stato il risultato peggiore degli ultimi anni. Mi si vuol forse dire, rimanendo con la faccia seria, che in un paese come l’Italia – con una legge elettorale per due terzi proporzionale e con una tradizione di plurime culture politiche – non ci sarebbe spazio al centro? Suvvia.
Lei crede possibile che Forza Italia possa restare in un governo che non ha votato la commissione europea e nonostante quello che Renzi chiama, a ragione, il poco coraggio di Tajani?
Penso che Forza Italia, soprattutto dopo alcuni segnali estivi della famiglia Berlusconi, voglia lanciare segnali di moderatismo e europeismo. Anche perché il collasso del Terzo Polo lascia oggettivamente un pezzo di Italia senza rappresentanza politica, e Forza Italia legittimamente si candida a dargliela. Tuttavia penso siano tentativi velleitari. I rapporti di forza all’interno della maggioranza sono troppo sbilanciati verso il versante populista-sovranista, sulle cui scelte Forza Italia non ha mai puntato i piedi (dalla vergognosa sceneggiata sulla ratifica del trattato di riforma del Mes alle scelte anti-mercato e anti-concorrenziali di Meloni e Salvini). Né penso lo farà a breve, perché bene o male la permanenza al governo rappresenta un collante forte, a prescindere. Nel medio-periodo Forza Italia dovrà scegliere se continuare a fare il junior partner dei sovranisti populisti, o se contribuire al rafforzamento di un polo liberale e riformatore.
Il referendum secondo lei dividerà il governo, o dividerà il paese, come sostiene il ministro Calderoli?
Quella sull’autonomia differenziata è solo l’ennesima occasione in cui la politica italiana ha dimostrato di essere ormai una sfida tra curve ultrà allo stadio: ciascuna curva sceglie il suo slogan ritmato e lo canta a voce alta, infilandoci in mezzo insulti e sfottò all’altra curva. La politica italiana ormai funziona così. Il progetto dell’autonomia differenziata è sbagliato, ma non certo per gli slogan (“oddio, tolgono i soldi al Sud e spaccano l’Italia”) che porta avanti il Campo Largo. Quel progetto è sbagliato perché ripropone la modalità di pensare al federalismo che avevamo a inizio anni Novanta, prima che la globalizzazione cambiasse la dimensione minima di scala della maggior parte delle politiche pubbliche. E in più, pensare di vivere in un paese dove se vai in macchina da Belluno a Reggio Calabria una stessa funzione pubblica cambia titolare sette volte è qualcosa che attiene alla commedia dell’assurdo, non alla politica. La vera sfida federalista oggi sarebbe decidere di quanti livelli di governo è composto il potere pubblico in Italia (al momento, con le province da un decennio in mezzo al guado, non sappiamo nemmeno questo), dotare ciascun livello di competenze esclusive, di uno strumento fiscale esclusivo e di fondi in grado di perequare al 100% la differenza tra fabbisogni standard (o addirittura LEP) e capacità fiscale. A quel punto si realizzerebbe il vecchio e caro principio liberale secondo cui il cittadino paga (le tasse a ciascun livello di governo, in modo chiaro e riconoscibile), vede (i servizi che quel livello offre con le sue tasse) e vota (giudica da che parte pende la bilancia tra questi due aspetti). Ma di questo non si parla: si preferisce, appunto, fare come allo stadio.
A conti fatti, questo è un governo che riuscirà comunque ad andare avanti o si accorgerà che dovremo costruire al più presto una soluzione tipo Panetta, come costruimmo quella sacrosanta Draghi?
Da trent’anni, dalla fine della Prima Repubblica in cui sciaguratamente scegliemmo di buttare a mare il bambino (il sistema dei partiti) con l’acqua sporca (la degenerazione che esso aveva toccato), periodicamente abbiamo bisogno del “tecnico” che aggiusta i guai: Ciampi nel 1993, Dini nel 1995, Monti nel 2011, Draghi nel 2021. Periodi in cui i partiti si nascondono e lasciano fare il lavoro sporco ad un tecnico, che poi – a lavoro finito – rispediscono a casa con tanti saluti. Anche questo balletto deve finire. La vera svolta non si avrà quando, a causa dell’incapacità della politica di emanciparsi dalla dinamica da “curva ultrà” e da televendita, dovremo chiamare Panetta o chi per lui a fare le cose che servono all’Italia. La vera svolta avverrà quando ci sarà un partito che avrà il coraggio di impostare il suo discorso politico, e chiedere il consenso, sulle cose che dice Panetta, e che prima di lui ha detto Draghi. Un partito che abbia il coraggio di smetterla di trattare gli italiani come bambini ai quali va raccontata la favola della buonanotte e che usi un linguaggio di verità, di coraggio e di speranza.
Onorevole Marattin, la ringraziamo, ci risentiamo per l’uscita del suo libro in modo da riprendere alcune delle questioni che ci interessano comunemente, a presto.
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