Per quanto possa apparire difficile prendere sul serio le fibrillazioni della maggioranza, esse sono comunque il sintomo del superamento della fase di unità nazionale e della mancata convinzione con cui determinate personalità, nei diversi partiti, si sono trovate costrette ad accettarla. Alle forze politiche mancava un presupposto costituzionale comune per rendere possibile la collaborazione, come pure fu l’antifascismo negli anni ‘70 del secolo scorso, è il prestigio di Draghi la base dell’intesa politica. Quanto all’interesse comune, bisogna pur dire che con il capo del governo, solo il capo dello Stato lo ha indicato nitidamente. È merito della compagine ministeriale nel suo complesso di aver fatto del suo e comunque i partiti della maggioranza finora hanno retto, anche se come appare evidente, magari con lo spirito di dover ingoiare un rospo.
Il presidente del Consiglio ha chiarissima questa situazione, lo si è compreso dalle sue parole della settimana scorsa e c’è persino chi ritiene che potrebbe o magari farebbe bene a dimettersi. Per la verità Draghi si rende perfettamente conto che la sua missione non è affatto conclusa, anzi. Occorre portare a termine i piani di resilienza nazionale ed il paese si trova di fronte ad una guerra che impone obblighi precisi all’intera comunità nazionale ed europea. Inutile poi aggiungere che la crisi di governo e l’ipotesi di andare al voto ad ottobre, sia qualcosa che solo Fratelli d’Italia potrebbe accarezzare, essendo l’unica forza politica i cui parlamentari possono contare di venir rieletti, quando tutti gli altri, causa il taglio dei seggi, più che sicuri di una riconferma possono esserlo di aver perso prebende e funzioni. È dunque molto difficile che si verifichi un incidente tale da poter far saltare il governo, anche se non disponendo della palla di vetro, non possiamo presagire quali avvenimenti possano ancora realizzarsi in un anno come questo che sta trascorrendo. Basta pensare che tre quarti degli analisti di geopolitica ancora più gettonati davanti, alla concentrazione delle truppe russe ai confini del Donbass, escludevano un’invasione. O che il fior fiore degli esperti militari o di terrorismo internazionale assicurava che Putin in una settimana avrebbe conquistato tutta l’Ucraina. Beati loro.
Resta il fatto che la politica riformatrice intrapresa dal governo non sarà necessaria solo da qui alla fine dell’anno o fino alla conclusione naturale della legislatura. Invece servirà soprattutto nella legislatura successiva per cui il problema che si troverà il paese in quel momento, sarà non solo di non poter fare a meno di Draghi, ma anche di dargli una maggioranza pienamente riformatrice, capace di continuare le principali linee di condotta dell’attuale governo, ovvero il rilancio economico e la sintonia con l’europeismo atlantico.
Come si evince dal panorama politico italiano, ma anche dalle sensibilità dell’elettorato, questa è tutt’altro che un’impresa facile. Non vorremmo però porre limiti alla provvidenza, e lo scrive chi non è incline ad una fede trascendente. Perché se si ricorda come era iniziata la legislatura e soprattutto come si era sviluppata per arrivare poi alla svolta Draghi, anche il più abietto miscredente avrebbe voglia di convertirsi e prostrarsi a qualsiasi miracolo.