La nuova tappa della ricognizione entro il dominio delle emozioni che Eugenio Borgna sta portando avanti ormai da diversi anni, in vista della messa a punto di una «psichiatria dialogica e gentile», come egli la chiama, è costituita da quest’ultimo libro (Dare voce al cuore. La nostalgia ferita. Speranza e disperazione in dialogo con la solitudine, Einaudi, Torino 2023, pp. XII, 236), nel quale egli muove dal principio secondo cui, se solo le emozioni hanno la proprietà di svelarci chi veramente siamo, tutto sta nel non soffocarle e – come si evince già dal titolo – nel trovare le parole giuste per dare loro una voce. Ma, per quanto le emozioni siano la via privilegiata per accedere alla nostra interiorità, per darci notizia su ciò che accade nei recessi più profondi della nostra anima, esse non ci chiudono mai entro la sfera di quest’ultima, perché, anzi – come si legge nella «Prefazione» –, l’elemento che le accomuna è quello di «portarci fuori dai confini del nostro io, e metterci in risonanza con il mondo degli altri». In tal senso, molto importante è che le emozioni non siano mai abbandonate a se stesse, ma si coordinino sinergicamente con il pensiero, in quanto solo così «è possibile avvicinarsi ai problemi conoscitivi ed esistenziali della vita». Vengono ricordate, in proposito, alcune riflessioni di Leopardi nello Zibaldone, laddove si legge, ad esempio, che «non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione» (22 ottobre 1820), nella misura in cui «la ragione pura e senza mescolanza» è «fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia» (20 gennaio 1820).
Ma dar voce alle emozioni è importante, soprattutto, in psichiatria, in quanto è attraverso l’ascolto di esse che il medico riconosce il modo in cui le persone che soffrono chiedono come essere aiutate. È proprio questo ciò che deve fare «ogni psichiatria che voglia guardare alla follia come a una possibilità umana». Circa la speranza, in particolare, uno stato d’animo che Leopardi, sempre nello Zibaldone, considerava come «inseparabile dal sentimento della vita» (18 ottobre 1825), Borgna afferma che essa funge da vera e propria «premessa alla cura»: se non abita nel cuore di chi cura una persona, allora, essa non abita «nemmeno nel cuore di chi è curato». Trovando le parole giuste, possiamo conferire ali alla speranza. Far sì che fiorisca fragile e luminosa, tale da cambiare il modo di guardare alla vita e da indurre «tenerezza e gentilezza nei cuori» Ma basta, talvolta, una semplice parola sbagliata per smorzare quell’apertura al possibile che la parola stessa dischiude, procurando così «ferite che non guariscono più».
Si parlava della necessità di sviluppare una disposizione di ascolto riguardo alle emozioni. Ebbene, una tale disposizione può prodursi solo in solitudine, la quale, contro ogni apparenza, sviluppa in noi acute capacità di discernimento e presenta un alto indice relazionale. «La solitudine, come il silenzio, è una esperienza interiore che ci aiuta a distinguere le cose essenziali da quelle che non lo sono. Possiamo avere cura degli altri solo avendo il coraggio della solitudine […]. Sì, la solitudine è matrice di cambiamento relazionale e culturale, sociale e politico». La solitudine va distinta così nettamente dall’isolamento, in quanto, se la prima promuove i valori della solidarietà e dell’altruismo, della «partecipazione emozionale al destino degli altri», il secondo ci rende, invece, simili a delle «monadi senza porte e senza finestre, immerse nei ghiacciai del nostro egoismo». E ciò tanto più in tempi come i nostri in cui siamo divorati dall’«incantamento per il digitale», il quale, appunto, vanifica in noi ogni disposizione relazionale di ascolto.
Nel titolo del libro si parla anche di una «nostalgia ferita», tema che viene introdotto attraverso la rievocazione, da parte di Borgna, di alcuni ricordi ancora molto vividi della sua adolescenza, quando la sua famiglia fu costretta a lasciare la cittadina nel novarese in cui abitavano, perché occupata dai tedeschi, e a soggiornare temporaneamente in un piccolo paese in prossimità del Lago d’Orta. Ed è proprio in questi mesi di “dorato esilio” che gli si dischiuse, per la prima volta, un’esperienza del tempo tale che, se, da un lato, esso si distendeva «sempre più verso il futuro», dall’altro, «si colorava a mano a mano di un passato divorato dalla nostalgia». Borgna ne trae spunto per avviare così una riflessione che ha per oggetto proprio la nostalgia, definita come una condizione cui ciascuno di noi va incontro negli «snodi infiniti della vita». La nostalgia e, in particolare, la «nostalgia ferita dal trascorrere del tempo, […] che la dilata e la rende sempre più acerba e dolorosa, è intessuta di ricordi, che hanno a che fare con il passato»: «con un passato che è luminoso e scintillante, o invece oscuro e lacerante, e che nascono e muoiono come farfalle effimere, eteree e inafferrabili». Dunque, non c’è solo una nostalgia dolorosa che ci chiude in uno stato di isolamento e che taglia in noi alla radice ogni speranza. Borgna ci insegna che c’è anche una nostalgia fonte di emozioni che vivificano il nostro cuore, costellando gioiosamente il nostro cammino
esistenziale. Ed è proprio questo tipo di nostalgia che noi, per lo più, dovremmo coltivare, vivendola come quello squarcio inatteso che, in un attimo privilegiato, “illumina d’immenso” il cielo della nostra vita, per riprendere la folgorante immagine di Ungaretti. La nostalgia va pensata cioè come il recupero di un passato che, potendo sempre rinascere dalle proprie ceneri, si configura così come una possibilità esistenziale permanentemente aperta e mai perduta una volta per tutte. In tal senso, essa, dandosi nel segno della “memoria del futuro” agostiniana, può essere fonte di autentica speranza e di appassionata attesa per l’avvenire.
Élisabeth Vigée Le Brun, Maria Antonietta in gran abito di corte, 1778. Olio su tela, 273×193,5 cm. Kunsthistorisches Museum, Vienna | CC0