L’anniversario della scomparsa di Randolfo Pacciardi avrebbe meritato più spazio delle poche parole che mi accingo a scrivere. Ricordo il giorno della morte di quel gigante del pensiero repubblicano. Morì a Roma il 14 aprile 1991, dopo aver attraversato un numero impressionante di esperienze. Sempre da protagonista.
Era nato a Giuncarico, tra le Colline Metallifere grossetane, il 1o gennaio 1899. Di famiglia modesta, aveva partecipato alla Grande Guerra come ufficiale dei Bersaglieri e, sul campo, si era guadagnato ben due medaglie d’argento, una di bronzo e la «Croce militare» britannica. «Bell’esempio di coraggio e di energia», come si legge nella motivazione che accompagna il conferimento della prima medaglia d’argento. Era uno dei ragazzi del ’99 che avevano addirittura cercato di arruolarsi prima del compimento dei diciotto anni.
Randolfo Pacciardi era anche uno studioso. Ottenuta la laurea in giurisprudenza in appena due anni, si distinse immediatamente come un brillante avvocato e come una delle migliori menti del Partito Repubblicano Italiano, al quale si era iscritto giovanissimo, appena sedicenne. A più riprese guidò quella forza politica, anche dal doloroso esilio. Fu uno dei migliori interpreti del pensiero mazziniano: nel 1922, con lo pseudonimo di “Libero”, pubblicò l’opera «Mazzini. La vita e le opere». Pacciardi, per tutta la vita fu animato da «religioso fervore» e da una devozione assoluta nei confronti del fondatore della «Giovine Italia», al quale dedicò molti interventi. Nel 1923, assieme a Gigino Battisti (figlio di Cesare Battisti) costituì il movimento di combattenti antifascisti «Italia Libera», diventandone segretario generale. Nello stesso anno organizzò una celebre contestazione al Duce in Piazza Venezia. Rischiò la vita numerose volte per riportare la libertà in Italia, nell’affermazione del pensiero mazziniano, che teorizzava l’azione degli uomini svincolata da ogni interesse materialistico. E, così, la sua vita rappresentò un monumentale richiamo agli esempi di Mazzini e di Garibaldi. Dal primo ereditò la profondità di pensiero, mentre dal secondo ottenne l’ispirazione per le sue gesta sia in Italia che all’estero. A capo del Battaglione Garibaldi, partecipò alla guerra di Spagna, sino ad avere la meglio sui franchisti a Guadalajara nel marzo 1937, nell’orrore di una guerra civile all’interno di un’altra guerra civile: non solo spagnoli contrapposti, ma anche italiani presenti sulle due sponde del conflitto. E quella guerra gli fece conoscere anche i progetti di alcuni combattenti marxisti, pronti ad imbracciare le armi per sostituire un regime con un altro.
Vicepresidente del consiglio nel governo De Gasperi, fu il ricostruttore delle forze armate della Repubblica (quale Ministro della Difesa dal 1948 al 1953). Si oppose alla partitocrazia che aveva infettato il sistema democratico sin dai primi anni della vita repubblicana. Proprio per superare i mali di un sistema nato già vecchio, Pacciardi nel 1964 fondò l’«Unione Democratica per la Nuova Repubblica». Alla base del pensiero dell’Unione veniva posta la necessità di una corposa ridefinizione dell’impianto repubblicano, ma – un po’ come era accaduto a Giuseppe Mazzini – quelle idee sembrarono troppo “rivoluzionarie”. E, così, quel gigante del pensiero democratico venne isolato e, solo nel 1979, fu pienamente “riabilitato” dal mondo dei repubblicani, anche grazie all’impegno di tanti suoi seguaci romagnoli. Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica nel momento della morte di Randolfo Pacciardi, lo ricordò come una vittima di un sistema di persecuzione in un clima di neo-giacobinismo riservato a questo grande Padre della Repubblica. Il tutto «per viltà dei più e a motivo di una torbida egemonia ideologica che voleva essere cultura e di un debole impegno etico della politica». Ma, dopo più di trent’anni dalla scomparsa, l’esempio di quel grande personaggio profetico anima ancora molti estimatori di uno dei protagonisti del Novecento.
Pacciardi con Amedeo Guillet e Mohammed Naguib | Foto Immaginario Diplomatico | CC BY-NC-ND 2.0