All’indomani della marcia dei 40 mila quadri intermedi Fiat scesi in piazza contro i picchetti operai che bloccavano l’accesso in fabbrica da più di un mese, il sindacato italiano ha dovuto cominciare a ripensarsi profondamente. Il modello di sviluppo della società non poteva essere compromesso dalle lotte di settore e anche se con riluttanza, si doveva fare i conti con le necessità di riorganizzazione e poi persino di delocalizzazione produttiva. L’Italia avrebbe finito con il perdere l’industria automobilistica e né il sindacato né i governi hanno potuto impedirlo. Nel mondo imprenditoriale vi sono anche delle dinamiche famigliari, oltre che individuali, che non possono essere controllate oltre un certo limite. Andatasene la Fiat, come è facile capire, il movimento operaio non è diventato più forte, è diventato più debole, in particolare la punta di diamante delle sue lotte, raggruppata all’interno della Fiom. Un processo questo iniziato nell’ottobre del 1980 che portò dieci anni dopo un governo Andreotti ad ingessare il diritto di sciopero sancito dalla costituzione con l’istituto di un comitato di garanzia, ovvero un’autorità terza chiamata di fatto a valutare l’azione sindacale. Non bastasse, si diede al governo la possibilità di precettare lo sciopero stesso. Era caduto il muro di Berlino, il modello socialista agonizzava, il capitalismo trionfante pensò bene di fissare il punto della situazione.
Bisogna riconoscere che il sindacato seppe incassare il colpo. Da una parte strinse le fila delle diverse organizzazioni che pure avevano avuto non poche divergenze fra di loro, dall’altra accettò la sfida della concertazione. Una sconfitta, certo e comunque la dimostrazione di sapersi modernizzarsi. Questo andare incontro al tempo come esso ci attende, non avvenne linearmente. Vi furono fenomeni di radicalizzazioni, e a breve una crisi del vertice della Cgil con la firma del congelamento della scala mobile. 1992, primo governo Amato, nemmeno un anno dalla fine del partito comunista italiano. Questa crisi, della Cgil non è mai stata interamente superata, se non attraverso la partecipazione dei suoi nuovi partiti di riferimento al governo, il Pds, i Ds ed infine il Pd e anche nonostante questa felice circostanza, il Pci non era più andato direttamente al governo dall’epoca di Togliatti, i problemi emersero lo stesso.
Oggi si capisce perfettamente come l’attuale segretario della Cgil che non si confronta più con Amato o D’Alema e che ha avuto persino problemi serissimi con Renzi , non riesca, o proprio non possa, entrare in sintonia con una maggioranza completamente avversa. Poi si può discutere se le controproposte avanzate dal sindacato siano più o meno convincenti rispetto a quelle dell’esecutivo, certo non possiamo pretendere che la Cgil condivida la manovra presentata alle Camere. Bisogna solo far presente due cose, la prima che intanto la spaccatura delle tre organizzazione principali, la Cisl si è distaccata, è un passo indietro. La seconda che l’articolo 40 della Costituzione sottopone l’esercizio del diritto di sciopero alla legge. Questo imponeva la necessità di misurare le parole e le manifestazioni con una certa circospezione, mancata invece del tutto. Non è che ringhiando di rabbia si migliorino le cose. Piuttosto si rischia di far finire il duo sindacale nell’angolo di una piazza, che non è manco più San Giovanni, quando il resto del paese, se non gli si schiera contro, si mantiene diffidente da tanta avventatezza. Alla Cgil servirebbe un ritorno alla cautela di Di Vittorio. “Lo sciopero è un atto grave e solenne, da usare con grande parsimonia per difenderne il valore civile e morale”.
foto Cgil