Sotto la pressione dello spread, attorno ai 200 punti base, l’Italia torna a interrogarsi sul proprio debito pubblico e sulla sua sostenibilità. Quando parliamo di debito pubblico è bene analizzare non solo il suo ammontare ma anche l’identità dei suoi detentori. Il report di maggio 2023 compilato dal Centro studi di Unimpresa mostra che il 50,3% del debito italiano è detenuto dalla Banca d’Italia (25,8%) e dal sistema bancario nazionale (24,5%). Il podio però spetta ai fondi di investimento stranieri, proprietari per il 26,5% del totale del nostro debito nazionale. Questo dato è significativo; lo Stato Italiano deve il 26,50% del suo debito totale a controparti straniere. Seguono agli ultimi posti i fondi di investimento italiani (12,3%) e le famiglie (10,90%).
Queste percentuali, rispetto al report di maggio che abbiamo citato, sono già cambiate. Si assiste infatti sui mercati a un crescente interesse dei risparmiatori cosiddetti retail, ossia la maggior parte degli investitori italiani, per i titoli del Tesoro, in particolare i buoni poliennali (BTP). Questi titoli, con durate tipicamente comprese tra i 3 e i 30 anni, stanno beneficiando del rialzo dei tassi e quindi permettono al risparmiatore di garantirsi una cedola interessante a fronte di un rischio che si ritiene minimo, ossia il fallimento dello Stato italiano. Per completezza è bene ricordare che questo non è l’unico rischio gravante sui titoli di stato, essendo sempre in agguato anche una eventuale ristrutturazione del debito o un rigetto totale o parziale di esso. Tralasciamo, per non allontanarci dal nostro tema, gli ulteriori rischi che potrebbero riflettersi sul prezzo di mercato di questi titoli. Le emissioni di giugno e ottobre del BTP Valore, titolo dedicato ai risparmiatori retail, hanno raccolto più di 35 miliardi, confermando il ritorno degli italiani al buon vecchio titolo del debito pubblico. Queste emissioni sono state studiate nei dettagli dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e la raccolta è stata assolutamente premiante. I BTP Valore, queste emissioni dedicate ai piccoli risparmiatori, piacciono agli italiani. Da un lato, grazie a questi titoli, il risparmiatore ha potuto proteggersi dall’inflazione, questi titoli risultano infatti indicizzati ad essa, dall’altro lo Stato, sebbene debba pagare interessi oggettivamente alti, avendo collocato questi titoli ai suoi stessi cittadini ha la sostanziale certezza che quel denaro rimarrà in patria e non andrà a beneficio di economie terze. I flussi di cassa pagati saranno spesi tendenzialmente nell’economia nazionale, generando crescita economica e tasse che permetteranno di recuperare, forse in maniera più che proporzionale, l’aumentato esborso per interessi sul debito. La partita però, appare anche sociale e geopolitica più che soltanto economica.
Da un punto di vista sociale il ritorno degli italiani a investire nei titoli del debito nazionale permette, come abbiamo visto, un utile trasferimento di ricchezza e un potenziale volano economico, dall’altro anche la compensazione parziale rispetto alla fine del quantitative easing europeo e l’inizio della fase di tightening. Vi è, però, anche un’importante protezione geopolitica, una sorta di scudo anti-speculazione che si sta cercando di costituire. Il mercato retail, ossia i piccoli risparmiatori che sommati però raggiungono importanti masse finanziarie, è assai più stabile rispetto ai fondi di investimento. Davanti a una riduzione dei valori di mercato dei titoli di stato, questi risparmiatori tendono a non vendere il titolo, ma piuttosto a mantenerlo fino a scadenza per evitare perdite, affidandosi al rimborso garantito. Questo permette unitamente, si spera, alla mancata vendita da parte del sistema bancario nazionale e soprattutto di Bankitalia, di evitare un crollo dei valori di quotazione e un conseguente aumento fuorimisura dello spread.
Insomma, il risparmio privato è a tutti gli effetti uno strumento di difesa dell’economia nazionale. I rischi, oggi, sono quelli di una speculazione estera e, non possiamo escluderlo, anche interna. Come abbiamo visto i fondi di investimento sia italiani che esteri detengono il 38,8% del nostro debito ed è bene ricordare che queste società rispondono a logiche private di profitto, con tutto ciò che ne consegue. La sfida è quella di riuscire il più possibile a limitare questa quota di modo da scongiurare un crollo dovuto a una vendita massiccia di titoli in un periodo di tempo limitato, operazione tipicamente speculativa. Ma vi è una ulteriore e ben più importante partita da giocarsi a livello europeo e cioè la necessità di un’azione coordinata per ottenere la proibizione, perlomeno sui titoli di stato dell’Eurozona, della vendita allo scoperto. Questo tipo di attività, arma affilatissima di ogni speculazione finanziaria, è stata solo parzialmente limitata dal Regolamento UE 236/2012. Un plauso in questo senso lo merita la Consob che, durante la pandemia, bloccò per tre mesi le vendite allo scoperto su 85 titoli, così la Spagna, la Francia, ma anche il Belgio, l’Austria e la Grecia. Anche l’Esma, potremmo dire la Consob europea, agì bene e tempestivamente ma in modo meno incisivo, si limitò infatti ad ampliare la trasparenza sulle vendite allo scoperto senza vietarle. Le attuali guerre in corso e il surriscaldarsi della geopolitica internazionale richiedono immediate e coraggiose decisioni in questo senso. Dove non può arrivare una bomba, spesso e volentieri arrivano le speculazioni e nel mirino potrebbe esserci l’intera tenuta dell’Europa come entità economica e politica.