Eugenio Borgna, decano della psichiatria italiana, proseguendo la sua ricognizione critica nell’universo di quelle “ragioni del cuore” di cui, al giorno d’oggi, si crede, per lo più, di poter fare a meno, dedica il suo ultimo libro al tema della mitezza (Mitezza, Einaudi, Torino 2023, pp. 120). Colpisce la definizione di quest’ultima, che compare fin dalla copertina, come di «una stella del mattino»: definizione che lascia intendere come l’autore ci voglia suggerire, per essa, una chiave di lettura eminentemente spirituale. Di fatto, il libro inizia con un richiamo al Discorso della montagna del Vangelo di Matteo (5, 1-12), dove la mitezza, configurata come una beatitudine, sta per la capacità di distinguere tra la sfera del mondo materiale, in cui operano la prevaricazione e la forza, e la sfera del mondo spirituale, in cui operano la passione persuasiva e il calore dell’amore. «La mitezza è una […] esperienza interiore, che non dovremmo mai lasciare inaridire in noi e che dovrebbe indurci a seguire con il cuore le persone fragili e deboli, sole e malate, emarginate e anziane, che hanno bisogno […] di umana vicinanza, di solidarietà, di attenzione».
Qualche decennio fa, il filosofo del diritto Norberto Bobbio fu autore di un Elogio della mitezza (1998). Ebbene, rifacendosi a esso, Borgna distingue fra mansuetudine, che resta più in superficie ed ha un’indole passiva, e mitezza, che va più in profondità ed ha un’indole attiva: entrambe sono disposizioni buone, ma, mentre l’una lo è nei riguardi soltanto di se stessi, l’altra lo è, invece, nei riguardi anche degli altri. Da Bobbio, la mitezza viene ricompresa, inoltre, nel novero delle virtù deboli. Ma “deboli” solo nel senso che sono prerogativa di quella parte della società in cui stanno i poveri, gli emarginati, gli umiliati e offesi, coloro che non lasciano alcun segno del loro passaggio su questa terra, di cui gli storici non si occupano, perché appartengono al lato sommerso della storia: persone che però, nonostante tutto, testimoniano di valori umani e spirituali indelebili. Ma se il mite è il nonviolento, colui che si rifiuta di usare la violenza contro chicchessia, ecco che allora la mitezza – così Bobbio conclude la sua riflessione su di essa – è una virtù non politica, anzi, è addirittura l’antitesi della politica.
Borgna avvicina la mitezza alla gentilezza, precisando che se l’una e l’altra possono dirsi senz’altro due «sorelle siamesi», la seconda non presenta però l’ampiezza degli orizzonti esistenziali della prima. «Nelle beatitudini risplende la luce sfavillante e stellare della mitezza, non della gentilezza, che è forse meno aperta alla dimensione religiosa e trascendente della vita». La mitezza è, inoltre, più fragile della gentilezza: mentre la seconda è più radicata nella nostra soggettività, la prima è, invece, esposta a tutto ciò che avviene nei contesti sociali della vita. E altri due accostamenti operati da Borgna sono quelli fra mitezza e nostalgia e fra mitezza e timidezza. Nel primo caso, la nostalgia, avendo la proprietà di recuperare il passato, nelle sue luci e nelle sue ombre, ma anche nelle sue ragioni nascoste e segrete, ci rende capaci, se ci gioviamo del suo apporto, di costruire relazioni aperte alla collaborazione e alla reciprocità. Nel secondo caso, la timidezza, avendo una significazione etica, ci aiuta a sviluppare lentezza e meditazione nelle nostre risposte, così da prevenire ogni aggressività.
Ma laddove della mitezza non se ne può fare assolutamente a meno è nella relazione di cura, nel momento in cui un medico, puntando gli occhi del paziente, incrocia uno sguardo, a sua volta, fragile nella sua mitezza. Viene ricordato il caso di Mario Tobino, poeta e scrittore, ma anche specializzato in psichiatria, nonché in servizio, per un certo lasso di tempo, presso un manicomio. Dal suo romanzo di esordio, Il figlio del farmacista (1942), intriso com’è di mitezza, scaturisce una «concezione dialogica e leopardiana della psichiatria», una capacità di immedesimarsi nella follia e di cogliere l’indicibile che è nella cifra misteriosa di essa. Un altro suo romanzo, Le libere donne di Magliano (1953), ci offre, inoltre, la «testimonianza di una follia salvata dalla mitezza, e dalla delicatezza». «La psichiatria di Tobino è insomma immersa in una percezione lirica della follia: riguardata come indicibile esperienza di dolore e di sofferenza, che non si cura se in psichiatrie e in psichiatri non ci siano gentilezza d’animo e umana sensibilità, tenerezza e attenzione».
Rafforzando le precedenti riflessioni con altre, di natura più squisitamente fenomenologica, Borgna definisce la mitezza anche come quella virtù grazie a cui noi, accettando le nostre fragilità e i nostri limiti, siamo capaci così di accettare le fragilità e i limiti degli altri. Essa, aiutandoci a distinguere fra il tempo in cui ci è dato parlare e quello in cui è ci dato tacere, ci permette cioè di far valere non solo i nostri diritti, ma di riconoscere anche quelli di chi ci sta davanti, ossia la voce silenziosa di chi ci viene incontro, rivolgendoci un appello che ci invita a un gesto di ospitalità e di accoglienza. È questo il preciso momento in cui, su un volto segnato dalla tristezza e dal dolore, erompe, dalla notte oscura dell’anima, il tenero bagliore di un sorriso, quasi fosse l’accendersi di un improvviso arcobaleno.
Sul mistero del sorriso, come «modo di essere della mitezza», Borgna si richiama agli «occhi […] ridenti e fuggitivi» di Silvia, nella prima strofa della poesia di Leopardi a lei intitolata, versi in cui si sente l’eco dell’oscillare di un fragile movimento dell’anima. Altri nomi di poeti richiamati, nella misura in cui hanno dato voce al sentimento della mitezza, sono poi: Emily Dickinson, vista la nostalgia ferita che si rispecchia nei suoi versi, Giovanni Pascoli, la cui poesia è intessuta di immagini struggenti che affiorano dalla memoria dell’infanzia e dell’adolescenza, Sergio Corazzini e Antonia Pozzi, rappresentanti entrambi di un modo di poetare intriso di grazia e di tenerezza adolescenziale. Ma, nel cercare esempi letterari per la mitezza, non si può non pensare a Dostoevskij: ad Alëša, uno dei fratelli Karamazov del romanzo omonimo, al principe Myškin, del romanzo L’idiota, e al racconto La mite, un lungo diario interiore di un marito che si strugge per non aver capito il segreto dell’anima della sua giovane moglie votatasi al suicidio. Di questo racconto esiste anche una trascrizione cinematografica: il film di Robert Bresson Così bella, così dolce (1969). Qui, il linguaggio umbratile e lirico del regista, restando fedele all’ispirazione dell’originale, si confronta con «una immagine della mitezza di una stremata leggerezza, e di un indicibile grazia ferita».
Nella parte finale del suo libro, Borgna riflette su che ne è della mitezza nei tempi della pandemia. Premesso che, nella fase più critica di quest’ultima, «è cambiata la nostra soggettiva esperienza del tempo», si è imposta cioè una concezione del tempo in cui i giorni si susseguivano gli uni agli altri senza lasciare traccia del loro passaggio, come se interi mesi della nostra vita non fossero mai stati vissuti, ecco che questo tempo vuoto e liquido ha bisogno, per ritrovare un suo profilo interiore, del tempo pieno della speranza, ossia di quella disposizione dell’animo che può essere considerata come una «compagna di cammino» della mitezza. La conclusione è che, «se la speranza fiorisce fragile e luminosa in noi, cambia il nostro modo di vedere il mondo, e la mitezza e la gentilezza rinascono nei nostri cuori».
Foto Cosimo Rosselli, Discorso sulla Montagna