La condanna del sottosegretario Delmastro riapre un dibattito mai sopito sulla giustizia in Italia. Il principio dell’innocenza fino a prova contraria è un pilastro dello Stato di diritto, e nessuno può essere considerato colpevole fino a sentenza definitiva. Tuttavia, tra la strada del giustizialismo e quella del garantismo c’è un’altra strada da percorrere: quella del dovere. E noi repubblicani lo sappiamo bene. Infatti, se il confine tra giustizialismo e accanimento spesso si confonde, nondimeno quello tra il garantismo e l’impunità. Il dovere, invece, non corre questi pericoli, perché non appartiene a una fazione o all’altra, ma attiene unicamente alla coscienza individuale. E la coscienza si fonda su due principi cardine: l’etica della responsabilità e il rispetto. Rispetto per se stessi, per i cittadini e per le istituzioni.
Se un incarico pubblico non è un privilegio personale ma un servizio alla comunità, né consegue che a chi lo ricopre, in caso di condanna anche solo in primo grado, s’impone una scelta che non è solo giuridica ma morale: dimettersi.
E questo non significherebbe né un’ammissione di colpa, né tantomeno il riconoscerla come tale ma sarebbe, invero, l’unico modo per dedicarsi serenamente alla propria difesa garantendo al contempo alle istituzioni la loro credibilità. Era questa la scuola di Ugo La Malfa, con cui ho iniziato la mia militanza, ed era un principio condiviso senza esitazioni. Oggi questa elementare regola di etica civile si è persa, magari perché vista come sottomissione alle frange giustizialiste o come un atto di debolezza, in luogo del suo profondo valore “repubblicano” di elemento di serietà della politica.
Tutta questa vicenda impone la necessità di una riforma della giustizia che sia certa e tempestiva. E, al tempo stesso, getta ombre sulla proposta del governo di separare le carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, perché non è peregrino pensare che questo significherebbe mettere i giudici sotto l’ombrello dell’esecutivo. E allora si che il timore di vedere uscire dalle aule di giustizia delle sentenze politiche sarebbe molto più di un semplice sospetto. Questo è ciò che deve essere evitato a tutti i costi e anche il caso Delmastro lo dimostra. Se si sostiene che la sua sia una “sentenza politica”, allora bisogna ammettere che tutte le sentenze che hanno riguardato politici in esercizio di funzione lo erano, assoluzioni incluse. Molto più semplicemente occorre ammettere con l’onestà intellettuale che si deve al senso dello Stato, che ogni sentenza è giudiziaria. Perché, senza bisogno di essere giuristi ma solo persone di buon senso, la verità in un’aula di tribunale é quella che si riesce a dimostrare in punta di diritto e non a sentimento. Ed quella verità processuale che porta un giudice ad emettere una sentenza. Nel caso Delmastro per il giudice evidentemente non vi erano le motivazioni di legge per accogliere le tesi dell’assoluzione, quand’anche chiesta dalla stessa pubblica accusa. Lo stesso avviene nel caso opposto, quando i pubblici ministeri chiedono la condanna e i giudici assolvono perché senza questa elementare considerazione anche la recente assoluzione del ministro Salvini per il caso Open Arms sarebbe da disattendere poiché da ritenersi politica. Invece è la prova che, pur nell’esigenza di essere riformato, il sistema garantisce equilibri e che i poteri devono restare rigorosamente separati.
E allora l’intera vicenda impone una riflessione più ampia sulla necessità di una riforma della giustizia che garantisca processi certi e rapidi.
Una riforma della giustizia che non debba incidere sulla carne viva della magistratura, alterandone o anche solo dando l’impressione di alterarne la terzietà ma che, piuttosto, garantisca processi celeri, che assicurino agli imputati un giudizio in tempi rapidi, evitando graticole mediatiche e il rischio di errori giudiziari, che condannano o assolvono dopo anni di attesa.
Dunque, evitando sia le lungaggini giudiziarie sia qualsiasi interferenza politica, cosa che la separazione delle carriere non garantisce nell’un caso come nell’altro. E proprio per questo la riforma Nordio getta un’ombra ancora più inquietante sui tanti dubbi che induce, col timore che si tratti del redde rationem che salda i conti con la ferita di tangentopoli e chiude la guerra iniziata da Silvio Berlusconi. E ilfatto che questo significherebbe assoggettare i giudici all’esecutivo, compromettendo la terzietà della giustizia non è assolutamente una fantasia o un pregiudizio ideologico.
E a dirlo chi se non i Repubblicani eredi del mazzinianesimo e dell’azionismo lamalfiamo?
Quest’anno il PRI celebra i suoi centotrent’anni di presenza politica nei quali, pur sempre da posizioni di minoranza, abbiamo sempre esercitato un ruolo di guida e indirizzo. E questo ruolo che la storia ci ha assegnato, oggi, quand’anche senza rappresentanze parlamentari, ci consegna il compito di esercitare una funzione di pedagogia civica nella politica italiana. Perché i nostri valori restano i valori della Repubblica, e non possiamo permettere che vengano piegati a un governo che sta imboccando pericolosamente la strada di una “democratura” che sta progressivamente svuotando dall’interno la democrazia repubblicana. E oltre quella soglia, il futuro diventa un’incognita, con scenari che non possiamo permetterci di ignorare. Tutto questo è aggravato da una società sempre più liquida, che si affida alla superficialità dei social, dove il confronto politico si riduce a slogan e indignazione a comando, smarrendo il senso profondo delle istituzioni e della responsabilità pubblica.
Possiamo permettercelo e possiamo permetterlo? Io credo proprio di no!