Ha qualcosa di formidabile la quantità di estimatori dell’onorevole Forlani che abbiamo scoperto nel paese. Forlani era praticamente scomparso dai radar dal 1993, trent’anni almeno, tre passati ai servizi sociali e alla Caritas per una condanna piuttosto difficile da accettare sotto un profilo giuridico. Non ci si era mai accorti che in tutto questo tempo qualcuno, oltre Casini e Folini, dicesse, caspita!, ma dove è finito Forlani? A parte le doti di garbo e di riservatezza, Forlani guidò la delegazione democristiana che rese omaggio alla camera ardente di Randolfo Pacciardi, allestita nella sede della Direzione nazionale di Piazza dei Caprettari, fu Forlani il segretario della Democrazia cristiana con cui il Pri ruppe un rapporto politico incominciato nel 1948. Se allora il segretario nazionale del partito repubblicano disse “mai più con la Dc”, si presume una qualche responsabilità di Forlani, altrimenti, avremmo fatto un torto alla sua personalità. Il fatto che lo si soprannominasse comunemente il “coniglio mannaro”, aiuta.
Se poi qualcuno cercasse di capire quale fosse davvero la dottrina politica e sociale dell’onorevole Forlani dai vari panegirici sulla sua dipartita, faticherebbe non poco. Forlani era principalmente un uomo di mediazione più che di elaborazione. Un concetto significativo lo espresse in una tribuna politica, quando definì lo Stato, come una pioggerellina capace di beneficiare tutti. Una immagine se vogliamo bucolica che come si capisce rende impossibili interventi specifici e settoriali, e che si mostra estranea all’idea di qualsiasi sacrificio collettivo o individuale che sia. Lo Stato “pioggerellina” rappresenta una comunità volta ad aiutare il singolo e nient’altro. Un paradiso terrestre, insomma.
Pietro Ingrao, un anno dopo la sua elezione alla presidenza della Camera, scrisse in Masse e Potere, Editori Riuniti, 1977 come lo Stato democristiano avesse rotto ogni contiguità con quello fascista. Nonostante il tessuto burocratico amministrativo fosse più o meno lo stesso, i valori erano profondamente diversi. Senza leggere Ingrao, basta guardare i rapporti degli statisti con i figli. Bruno Mussolini a 17 anni è pilota da guerra in Africa e si schianterà sul suo areo a 23, quando Piero Piccioni, il figlio di Attilio, l’esponente democristiano incaricato di formare il governo nel 1953, ancora a trent’anni fa la bella vita fra festini e droga. A parte la tragicità del caso Montesi, il figlio del senatore la Russa, Apache, ripercorre lo stile di vita Piero Piccioni, che sarà poi scagionato da ogni accusa. Nessuno dei due giovani sembra interessato a diventare un servitore dello Stato come i rispettivi genitori. Il fascismo presumeva di imporre un’etica guerriera da padre a figlio, un modello spartano, improponibile ma in cui lo dimostra Bruno Mussolini, il padre credeva. In cosa credono Piccioni e La Russa invece?. Piccioni, rinunciò alla presidenza del Consiglio e poi anche al ministero degli Esteri e questo senza mai commentare la situazione giudiziaria del figlio. La Russa, ci ha spiegato ieri sera in una trasmissione televisiva l’onorevole Bocchino, ha invece orgogliosamente privilegiato il suo ruolo genitoriale. Togliamoci il cappello per tale scelta. Appurato che il presidente del Senato nulla ha a che spartire con Mussolini, nemmeno assomiglia ai democristiani di Forlani, dove in simili condizioni, si dimettevano in silenzio. La Russa rappresenta una nuova era, ce lo dirà lui quale.
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