Io sono io. Non bisogna scriverlo così. Così non si capisce. Bisogna scriverlo: io so’ io. E allora è chiaro che è una citazione dal Marchese del Grillo. Io sono io, sembra Fichte. Il linguaggio della sinistra al potere si può sintetizzare così. Del resto a loro piace parlare per slogan. E bisogna dare atto che gli slogan sono efficaci. Ti dispensano dall’analisi. Puoi pensare facilmente i pensati altrui senza doverti per forza cimentare. Sono facili da memorizzare. E se sono ironici fai pure la figura dello spiritoso, oltre a quello del citazionista colto.
La tragedia della sinistra nasce con la Cosa di Occhetto. Quando sapevi di dover cambiare, e per forza, senza aver chiaro cosa diventare. Mica potevi chiudere baracca e amen. Dovevi andare avanti. Difficile mettere tutti d’accordo, impossibile mantenere quel nome, la Cosa, che invece era divertente e adatto. Nanni Moretti provvide pure a fare l’omonimo documentario, la nostalgia e la tristezza per un sogno che si chiude, per il sole dell’avvenire che non fa luce ma la gioia di andare tutti da qualche parte. Va bene, ma dove? Era il Pds, che prima perde la pi iniziale ed è diventato Ds, poi ha perso la esse finale ed è diventato Pd, fondendosi a freddo con quello che restava dei cattolici, anche loro con un futuro tutto da inventare. Così è diventato, il Pd, un partito dal passato importante ma con un presente in corso di definizione. Un passato importante ma, va precisato, totalitario. Perché unisce, e adesso in una tradizione unica, gli eredi del comunismo e gli eredi del cattolicesimo. Ed è quanto rimane di autenticamente caratteristico del Pd. Quello di avere per forza ragione. Quello di non vedere, nella diversità, ricchezza ma fastidio. Oltre di me c’è la Siberia o la scomunica. Funzionò così per tutto, anche in assenza di identità e programmi la sinistra conservava questo preteso senso di superiorità rispetto al resto. Gli altri erano sbagliati. Da distruggere, demolire.
Questa visione del mondo e delle cose si riflette nel linguaggio e nella propaganda. Perché non è un linguaggio accogliente, inclusivo, aperto alle differenze, al confronto. Non c’è la cultura del dubbio cara ai liberali e alle democrazie. C’è la cultura della certezza politica, economica, sociale e oggi persino scientifica e sanitaria. Le voci del dissenso vanno sputtanate. Regola numero uno. La sinistra è pop e deve parlar facile, quindi niente elaborate contro-argomentazioni. Non verrebbero seguite e capite. Sembrerebbe una resa. Meglio sostenere che l’alternità non è adatta e degna del dialogo.
Il linguaggio poi si impegna in operazioni di reductio. Non bisogna mediare tra i differenti punti di vista, come prevede la democrazia che ha persino un luogo in cui farlo: il parlamento. Bisogna minimizzare. Perché gli oppositori al regime del pensiero devono sempre essere pochi. Se passa il messaggio inverso è un problema. Perché si instillerà il dubbio che la salvezza possa estendersi anche oltre il recinto protettivo della verità rivelata. Minimizzare a ogni costo e contro ogni evidenza. Se si dovessero riempire le piazze, sono sempre quattro gatti, nel caso inondare l’informazione main-stream di foto fatte alle 3 di pomeriggio in manifestazioni previste per la sera.
Dovesse andar male c’è sempre la riductio ad hitlerum. Che è poi il vero grande classico. Io sono il custode del verbo, tu, se mi contraddici, per qualsiasi motivo, su qualsiasi argomento, sei un fascista. E con i fascisti non ci si discute.
La variante dei nostri tempi è la riductio ad asinum. Gli altri sono sempre terze medie a prescindere, e la scienza non è mai democratica, per cui chi contraddice il Verbo è fuori come un balcone, un Nobel può diventare un vecchio rincoglionito, Capezzone, Sgarbi, Bencivenga, Preterossi, sono un po’ questo punto, un po’ il precedente, Antonio Martino non ne parliamo. È una cosa un po’ rischiosa, perché poi capita che la Azzolina si chiede se Cacciari abbia o meno mai letto dei libri di storia in vita sua, ma non fa nulla, compagni, avanti al gran partito, ci aspetta solo l’ “immancabile vittoria finale” (che nessuno ha mai capito esattamente quale sia).
Io so’ io. Ma le liberal-democrazie hanno le loro regole, in cui sono io tutti gli altri. La tradizione repubblicana prevede un io collettivo, la cui sostanza è fatta delle libertà di tutti gli io, ciascuno con la sua vita e i suoi punti di vista. La tolleranza è ascolto e reciproco arricchimento, non sopportazione. Questo tipo di cultura non consente a nessun marchese del Grillo di dire: voi non siete un cazzo.