A volerla proprio semplificare all’essenziale nella visione di Hegel noi abbiamo un piano etico superiore a un piano morale. Il piano morale è quello dei capricci individuali, anche. Non esistono anime belle in senso universale, esistono anime che si credono belle che impongono altrui il proprio particolare. Il piano morale soggiace ad un orizzonte etico, come anche l’arbitrio del più forte. Il regno delle leggi etiche è lì a difenderci. Certo, le leggi non sono ‘imposte’, come molte superficiali letture divulgano, le leggi sono invece fatte di una comune sostanza etica che ogni particolare avverte e di cui ogni singolo partecipa. Così che l’universale etico è qualcosa che va ancora oltre la semplice somma dei particolari. È la legge repubblicana. Non una libertà dalla legge e dallo Stato in nome dell’individuo, come nella tradizione liberale. Ma una libertà nella legge. È la legge, cioè, a garantire la mia libertà.
A volerla proprio semplificare anche Il Signor Mirarchi. Una sfida al diritto e al destino, una delle storie di Davanti alla fine del mondo (Tipheret – Gruppo Editoriale Bonanno) è l’Antigone della modernità. Il Signor Mirarchi è l’uomo morale che semplicemente non è a tempo con la legge. E anche lì, per rabbia, saresti pronto ad invertire etica e morale e dire: no, la legalità viene dopo, anzi, il legale non ha cittadinanza affatto se non è morale.
L’impressione è che anche i Maestri del diritto l’etico te lo volessero imporre e basta. E che a te, povera entità singola che sei, non rimane nemmeno la forza di piangere o di protestare. Non è così, e lo ricorda anche un recente saggio di Klaus Vieweg (La “logica” della libertà): «La particolarità raggiunge il suo apice nella vita come esistenza personale, la soggettività si manifesta come vita, col che si deve ammettere per tutti gli uomini il diritto all’autoconservazione, il diritto all’esistenza corporea in quanto diritto di necessità. La vitalità naturale non costituisce una degenerazione dell’uomo, bensì un momento essenziale della sua razionalità stessa. Se è minacciata una seria lesione di questa esistenza e con ciò si può temere una totale assenza di diritti, e la lesione dell’esistenza della libertà stessa, seppure a confronto col basso ‘valore’ d’una singola cosa, l’astratto, rigoroso diritto deve cedere e venir meno».
Se un affamato ruba del pane, non ci sono cazzi: è un suo ‘diritto’ e il diritto ‘deve avere vita’. Se un ristoratore non ha più risorse, né più risorse gli vengono date, sopravvivere è un suo diritto al punto tale che per lui, uomo singolo, si deve interrompere le stessa macchina del diritto. Altro che Mario Monti (la cui esistenza singola è invece un danno per l’universale concreto, ma ha cattedre e pulpiti talmente insipienti da essere alla fine poco infettivo)! La domanda non è: come si comporterebbe la giustizia se un ristoratore se ne chiamasse fuori per affermare un suo diritto, la questione è: se esistesse una situazione di questo genere non ci sarebbe più giustizia. Non si tratta di chiudere un occhio, cioè, o ‘tollerare’ proteste estreme, perché in campo c’è un “incontestabile diritto dell’uomo”, implicito nel senso universale di giustizia.
«Nella Nachschrift di Hotho della Filosofia del Diritto questo viene messo in risalto: dinanzi alla ‘indicibile quantità dell’infelicità’, tipica della povertà, sorge il diritto superiore alla conservazione dell’esistenza; si può ammetterlo per ogni soggetto che si rivolti a partire dalla necessità». Era lo stesso Hegel a scrivere: «Si potrebbe rimediare all’infelicità di molti con pochi mezzi, che sono però in libero possesso di altri». Se facessimo nostre queste parole il Signor Mirarchi non sarà morto invano.