Tra i primi ad introdurre i problemi della psicologia sperimentale negli Stati Uniti, nonché fondatore della corrente del pragmatismo americano, William James (1842-1910) è autore di un importante libro (Saggi sull’empirismo radicale, a cura di L. Taddio e A. Colombo, postfazione di R. Ronchi, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 206), di cui oggi segnaliamo l’uscita in edizione italiana. Va detto, innanzi tutto, che si tratta di un’opera data alle stampe postuma, due anni dopo la morte del suo autore, da parte di un suo allievo che raccoglie insieme quattordici testi del maestro, pubblicati su rivista o da lui discussi in diverse occasioni. Aggiungiamo poi che, in questi testi, James rivendica, più d’una volta, l’assoluta novità della prospettiva filosofica cui stava lavorando: l’«empirismo radicale», appunto, il quale, nel suo aprire scenari inediti alla riflessione, si distinguerebbe non solo dall’empirismo, tradizionalmente inteso, e, ovviamente, dall’idealismo, ma anche dallo stesso pragmatismo, da cui col tempo si allontana, dopo esserne stato – come abbiamo appena visto – il fondatore. Per dare un esempio del gesto di radicalità messo in atto da James, ebbene, uno dei suoi intenti programmatici ha per oggetto, in particolare, la coscienza intesa come entità: coscienza che egli vuole sopprimere completamente, per far posto a quel suo equivalente pragmatico che si mostra nella realtà dell’esperienza. I Saggi sull’empirismo radicale si aprono, infatti, proprio con un capitolo intitolato «Esiste la coscienza?». Qui, scrive: «Credo che la “coscienza” una volta evaporata, […] sia sul punto di scomparire del tutto. È il nome di una non-entità e non ha diritto a un posto tra i principi primi. Quanti ancora vi si aggrappano, si aggrappano in realtà a una semplice eco, al flebile rumore lasciato dall’anima dietro di sé mentre scompare dal cielo della filosofia». Subito dopo, precisa, però, che egli vuole negare non la coscienza in quanto tale, ma il modo tradizionale di intenderla come una sostanza, per affermare, invece, nella maniera più decisa, che «essa indica una funzione».
Ora, a partire da questa critica alla coscienza intesa come entità, che cosa ha in mente, propriamente, James quando parla di «empirismo radicale»? Ma vediamo, innanzi tutto, qual è il suo bersaglio polemico principale. Esso è costituito da ciò che egli chiama «intellettualismo»: una posizione in cui si raccoglie gran parte della storia della filosofia occidentale, nel senso che inizia con Platone, si prolunga fino a Cartesio, per poi confluire nel criticismo kantiano e nell’idealismo hegeliano, nonché nel neohegelismo inglese di Bradley. «Intellettualismo» è così quel modo di fare filosofia, il quale, decretando che il pensiero discorsivo è l’unica via di accesso alla verità, priva l’esperienza di qualsiasi fondamento, in modo tale che quest’ultima, trovandosi difettosa e imperfetta, se lo va a cercare in un principio superiore che la ordini, la categorizzi e la unifichi. Conseguenza immediata che ne discende è il predominio della soggettività – divenuta, con Kant, trascendentale – sull’oggetto, priorità dovuta al fatto che la prima, esplicandosi come anima, intelletto e coscienza, è privilegio assoluto dell’uomo, mentre il secondo, essendo consegnato al mondo, è, all’opposto, semplice materia abbandonata a se stessa. «[L]a parola coscienza oggi non svolge altro ruolo se non quello di indicare il fatto che l’esperienza è insuperabilmente dualistica nella sua struttura». In seguito, da questa dicotomia ontologica originaria fra soggetto e oggetto si originano di riflesso tutte le altre: quelle fra sensibile ed extrasensibile, esteriore e interiore, cose e idee, dove la verità, nei precedenti dualismi, occupa, ovviamente, sempre la parte destra.
Ebbene, visto che il proposito di James è quello di abbattere il principio che legittima proprio tutti questi dualismi, egli perviene a formulare così «l’ipotesi che ci sia una sola sostanza o materia primigenia del mondo, una sostanza di cui ogni cosa è composta» e a cui dà il nome di «esperienza pura». La conoscenza va spiegata, in tal modo, come un tipo particolare di relazione reciproca fra porzioni di questa «materia primigenia», dove, volta a volta, a seconda delle occorrenze particolari, l’una svolge l’attività di conoscente e l’altra di conosciuto, senza che mai si crei fra di esse una gerarchia di valore. Il tutto all’insegna della massima reversibilità, perché la porzione che svolge il ruolo di conoscente, in una relazione, può svolgere quella di conosciuto, in un’altra. All’esperienza immediata il reale si dà cioè come un intrico di eventi, ossia come una “rete” in cui ogni cosa si lega nel segno di intrecci continui e dinamici con altre cose, al di qua di qualsiasi dualismo e scissione. Ecco, dunque, in che senso si può dire che, in James, si dà il primato totale della funzione rispetto alla sostanza, perché ogni cosa si distingue da un’altra solo per l’attività che essa svolge, nella data relazione reciproca in cui si trova. «Allo stato puro, […] non c’è scissione interna tra coscienza e ciò “di cui” si ha coscienza. La […] soggettività e oggettività sono soltanto attributi funzionali». Scrivono, al riguardo, i due curatori: «James propone un’idea incredibilmente responsabile e positiva della filosofia e della metafisica: produrre concetti equivale ad agire attivamente, a far avvenire il mondo; pertanto risulterà impegno del filosofo produrre atti di pensiero che sappiano avere effetti benefici e salubri»: «atti di pensiero» che possono dirsi “sani” solo se restano «all’altezza dell’attività creatrice del reale», ossia se non cercano «né di separarsi dalla sensibilità né di eleggersi a unico tribunale titolare di giudizio», per fingersi stabili e superiori rispetto al resto del mondo. «È proprio questo il nuovo metodo della filosofia jamesiana opposto al logos, al discorso razionale, di Platone».
Chiude il libro la postfazione di Rocco Ronchi, dal titolo Una transizione intransitiva. Qui, viene sottolineato come quella prospettata da James non è una visione del mondo, ma è la proposta di un nuovo metodo del sapere: un metodo universale che il filosofo americano presenta alla comunità scientifica e che «deve farsi principio di orientamento nella prassi». Questa proposta, inoltre, non va confinata nell’orizzonte del suo tempo, ma ha una portata senz’altro più ampia, se si pensa agli effetti che essa ha prodotto sulla “filosofia dell’organismo” di Whitehead e sull’“empirismo trascendentale” di Deleuze. Non solo, ma la prospettiva di James sembra preparare il terreno anche ad alcune fra le ricerche più innovative nell’ambito della filosofia della mente e delle neuroscienze, dove il riferimento va, in particolare, alle teorie della cosiddetta “mente diffusa”. Afferma ancora Ronchi: «La continuità che sperimentiamo al fondo del nostro essere come un dato immediato […] non è però soltanto un problema della filosofia, ma è il problema della filosofia in quanto tale. Elaborare il metodo dell’empirismo radicale vuol dire allora […] chiedersi nuovamente se la filosofia come tale sia possibile, se sia possibile una intuizione del reale o se dobbiamo abbandonare questo sogno, accontentandoci per il “sapere” della sola dimensione della rappresentazione».