In Italia, almeno stando ai numeri dell’Istat, c’è voglia di impresa.
Sono infatti ben 71.722 le imprese fondate in Italia nel primo trimestre del 2023, a fronte di, purtroppo, 1.774 fallimenti.
Se compariamo questo dato con quello degli stessi mesi del 2022 vediamo che c’è addirittura stato un aumento del +2,29%. Negli stessi mesi dell’anno scorso infatti furono fondate “solo” 70.116 aziende, a fronte di 1.898 fallimenti.
Tuttavia, se il dato ci fa ben sperare e mostra fermento economico, va rilevata anche una certa asimmetria nella distribuzione settoriale.
Il settore che ha visto il maggior numero di nuove imprese è quello dei servizi (24,19%), tallonato dal commercio all’ingrosso e al dettaglio (ivi compresa la riparazione di automobili e moto) con ben 17.035 nuove imprese (23,75%). Sul podio, con medaglia di bronzo, l’edilizia che con le sue nuove 16.966 imprese raggiunge il 23,65% del totale del primo trimestre 2023.
I numeri sono incoraggianti, ma lo è meno il fatturato: il 60% delle imprese italiane fattura meno di 100.000 euro. Questo però, per chi scrive, è un problema solo in parte per due motivi. Il primo è che il 92% del PIL italiano si fonda proprio sulle PMI, un settore economico a dir poco strategico e su cui si auspicano, come già sottolineato, delle politiche governative ben più coraggiose.
In secondo luogo, queste imprese, per tutta una serie di motivazioni economiche ed operative, sono maggiormente localizzate e pertanto generano benefici ed esternalità locali o nazionali piuttosto che transnazionali.
Una situazione con questi numeri (60% di microimprese sul totale e 92% del PIL generato dalle PMI) è più da tutelare e coadiuvare che da scardinare per generare una crescita importante del fatturato o delle dimensioni.
Prendere atto, gestire e integrare una situazione di fatto, in economia, spesso è la soluzione più semplice, più mirata e più efficace (oltre che meno rischiosa) che tentare ricette alchemiche sulla pelle dell’economia nazionale al fine di raggiungere una non meglio specificata crescita del settore.
Nell’attuale sistema capitalistico per crescere serve il denaro da investire. Questo rappresenta un nodo fondamentale che il governo, di qualsiasi colore, dovrebbe risolvere: l’accesso al credito delle microimprese è oggi difficoltoso presso qualunque istituto bancario ma senza benzina, pardon! senza elettricità, la macchina non cammina.
Prima di parlare di internazionalizzazione delle imprese o esportazioni dei nostri prodotti sarebbe bene risolvere l’accesso alla fonte di approvvigionamento della materia prima, che nell’economia moderna occidentale è soltanto una: il denaro.
In Italia, l’impresa, o come si dice spesso “la ditta”, così come la casa, è una questione culturale prima che economica e rappresenta per molti la sicurezza personale e familiare, una eredità ricevuta o da tramandare, un lavoro da dare a un figlio in un momento economico con pochissime certezze per i giovani.
I microimprenditori, spesso, non hanno strumenti culturali adeguati per poter beneficiare di politiche di internazionalizzazione o di tutte quelle politiche che mirano a far crescere fatturato e dipendenti. Quelle politiche sono essenzialmente a vantaggio delle medie imprese, quindi di imprese di dimensioni minori rispetto ai colossi aziendali ma comunque ben strutturate, considerando che vantano fatturati milionari.
Peraltro gli incentivi per l’internazionalizzazione si rivolgono essenzialmente a imprese di prodotto, infatti non tutti i servizi sono vendibili all’estero, tantomeno è semplice internazionalizzare l’edilizia, settore cionondiméno fondamentale dell’economia.
Chi scrive ritiene sia necessario potenziare al massimo lo strumento del fondo di garanzia, sia come risorse attivabili che come ampiezza operativa.
Rimane però la strettoia, spesso insormontabile, della centralità (e del monopolio) delle banche private nel sistema del credito, una situazione divenuta ingestibile negli anni 2008-2015 e che ancora perdura per tutte le microimprese.
Ci sarà mai il coraggio di addivenire a una soluzione strutturale che possa assicurare ossigeno costante alle imprese italiane per portare l’economia nazionale a una vera ripartenza e resilienza?
Perché, è bene ricordarlo, la crescita economica non si crea per decreto.
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