In psicanalisi, il tradimento del desiderio viene indicato con un termine preciso: felicità. Così che Slavoj Žižek può chiedersi: esattamente quando una persona si può ritenere felice? In Cecoslovacchia, per esempio, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, la gente era felice di fatto e questo perché venivano soddisfatte, e contemporaneamente, tre condizioni.
(1) I bisogni materiali erano soddisfatti, sì, ma non troppo. Un eccessivo consumo di tutto genera abitudine. Tutto è dovuto e tutto c’è. Se ogni tanto manca qualcosa, niente caffè per un paio di giorni, poi niente televisori, la gente non si dimentica di quanto è privilegiata.
(2) C’è sempre un altro da incolpare se e quando qualcosa va storto. L’Altro, il Partito, prende su di sé ogni eventuale responsabilità del cittadino.
(3) Esisteva un Altro Posto, nemmeno tanto lontano, cioè l’Occidente, buono da sognare e a portata di visita.
Questo equilibrio però era fragile. E crollò. E cosa lo fece collassare? Il desiderio. «Il desiderio era la forza che spingeva la gente a mutare direzione, per andare a finire in un sistema in cui la grande maggioranza delle persone è meno felice. La felicità quindi non è – per dirla nei termini di Badiou – una categoria di verità, ma una categoria di mero Essere e, in quanto tale, confusa, indeterminata, incoerente (come nella famosa risposta dell’immigrante tedesco all’americano che gli aveva chiesto: “Sei felice?”. “Sì, sì, sono felice, aber glücklich bin ich nicht… ma non sono glücklich [felice in tedesco] per niente”. È una categoria pagana: per i pagani l’obiettivo da perseguire era vivere felici (l’idea di vivere “per sempre felici” è già una versione cristianizzata del paganesimo) e l’esperienza religiosa o l’attività politica erano considerate in sé la forma più elevata di felicità (si veda Aristotele). Non stupisce che anche il Dalai Lama riscuota un enorme successo predicando per il mondo il vangelo della felicità, o che trovi il suo uditorio più sensibile proprio negli Stati Uniti, l’ultimo impero della (ricerca della) felicità. In breve, “felicità” è una categoria del principio di piacere, e quello che la insidia è l’esistenza di un Oltre rispetto al principio di piacere. In termini strettamente lacaniani, dovremmo dire che la “felicità” si fonda sull’incapacità o indisponibilità da parte del soggetto di confrontarsi completamente con le conseguenze del suo desiderio: il prezzo della felicità è che il soggetto rimanga legato all’incoerenza del suo desiderio. Nella nostra vita di tutti i giorni desideriamo (meglio: fingiamo di desiderare) cose che in realtà non desideriamo, così che alla fine la cosa peggiore che ci possa capire è ottenere quello che desideriamo “ufficialmente”». Come quando promettiamo alla ragazza giovane, tatuata e infedele: per te darei la mia vita e il mio matrimonio. Occhio.
Il peggiore dei nostri incubi è il ritorno alla realtà. La abbiamo colorata, edulcorata, riempita di cose che semplicemente ci aiutavano a farci andare avanti. Nel suo ultimo libro, edito da Meltemi, Žižek ci dice che non è così. Che lo spartiacque è stato l’11 settembre, lì è crollato il nostro errore ed abbiamo semplicemente aperto gli occhi. La nostra quotidianità è il mostro che non vogliamo vedere, il deserto delle nostre anime, il vuoto di valori. Un mostro che noi tentiamo di addomesticare. Ma è ogni giorno più difficile. Il nostro destino, oggi che anche il capitalismo occidentale sperimenta una crisi irreversibile, sembra quello di scavare il buco nero dentro cui precipitare. E la felicità non sarà più possibile nemmeno immaginarla. Eppure la soluzione è a portata di mano e si chiama comunità. Il saper leggere cioè se stessi negli altri, lo scoprirsi nella relazione, il passare dall’homo sacer al prossimo tuo. Una società solidale riesce a tenersi nonostante ogni problema. Così si esce dal deserto. Verso la terra promessa.
Foto Luca Galuzzi | CC BY-SA 2.5