Giorgio Parisi ha vinto un Nobel per la fisica. Sono contento. Soprattutto perché è italiano. Ma Parisi non è uno che si accontenta e ho paura che non sappia che la Fisica ha un ruolo fondamentale per la nostra società, ma che non è né può essere la disciplina madre nel sentiero della Conoscenza. Diceva Emanuele Severino, nel confrontarsi con un grande fisico come Roger Penrose, che Filosofia e Fisica non dovrebbero nemmeno dialogare, perché non hanno più niente da dirsi. Ognuna fa, bene, il suo mestiere. I pasticci cominciano quando uno vuole fare il mestiere dell’altro. Il fisico è uno che descrive oggetti e cerca leggi. Cambia poco se davanti ho un sistema semplice, dell’acqua, o un sistema complesso (una bottiglia di vetro piena d’acqua, con il tappo). La complessità, chiaramente, è dovuta all’oggettività che ho davanti. Una cosa è descrivere lo stato di ogni molecola d’acqua in una bottiglia in un istante di tempo x, perché gli stati possibili sono relativamente pochi (solido, liquido e gassoso) e pochi sono i parametri che ci servono (pressione e temperatura). Ecco che avere dimestichezza nel calcolo ci permette di descrivere con più precisione alcune configurazioni di oggetti, e guadagnare qualcosa in termini predittivi (cioè come evolveranno nel tempo). L’utilità è indubbia. C’è un però. Il però nasce nel momento in cui si voglia varcare questo perimetro. C’è un pregiudizio di fondo, tipico delle scienze empiriche, che è quello di ritenere che un oggetto sia dato e che esista, di fronte a noi, un mondo reale, oggettivo, che un soggetto può descrivere. E fin qui. La questione è che è chiaro, da Aristotele in poi, e ancor di più almeno dalla rivoluzione copernicana di Kant in avanti, che un oggetto indipendente dal soggetto esiste fino a un certo punto. Ma che occorrerà sempre studiare, questo da sempre il ruolo della Logica già dall’Organon dei greci, le condizioni interpretative del soggetto che rendono possibile l’oggetto. L’errore sta nel ritenere che possa esistere un mondo degli oggetti a prescindere dai soggetti (che anzi secondo le filosofie più radicali quegli oggetti pongono e determinano). Parisi fa il Nobel quando si limita all’ambito dei suoi studi. Cosa che più o meno riconosce: «La scienza non spiega il perché del mondo». La scienza empirica spiega il come del mondo. Ed ha un compito fondamentale nella società della tecnica. La scienza può descriverci la cornice del quadro, può dirci se c’è del vetro, molto ci dà sulla composizione della tela e del colore. La scienza non riesce ad essere soggetto. La scienza non guarda il quadro. Non solo la scienza, quindi, non potrà dirci nulla su Dio, ma potrà dirci molto poco su qualsiasi prodotto dello Spirito dell’uomo, dalla morale, alla politica, alle istituzioni dello Spirito Oggettivo (lo Stato). Nel quadro del sapere ha uno spicchio, e abbastanza limitato. Non è, la Fisica, la scienza dell’Uno. Non è quella Scienza Assoluta, con cui qualche volta la si confonde, che ci sa spiegare il senso del mondo. E questo prima di vedere adesso Parisi in televisione discettare sulla terza dose, sull’Europa o sul Catasto.
Quando Benedetto Croce ci diceva che gli ‘empiristi’ sono incapaci di più alto sentire (polemizzando con il fisico e Accademico dei Lincei Federico Enriques) intendeva proprio questo. Già nella Logica del 1909 definisce l’empirismo una delle forme dell’errore. Tutta la cultura positivista rimane estranea allo ‘spirito della storia’, perché è fatta di schemi classificatori, scientifici nel senso più deleterio del termine, pronta a recriminare i diritti di una cultura che è sempre china su fatti particolari, “estrinseca, classificatoria, inintelligente”. Se il positivismo punta a tutto classificare, senza cogliere il nesso tra le cose, il matematico vuole calcolare, senza nemmeno la poesia dei Pitagorici, per i quali almeno dietro i numeri c’era il profumo dell’universo. «Quando il ragazzo è disattento e caparbio, gli si tirano le orecchie». «Io», scrive Croce, «non ho figlioli, non sono maestro di ragazzi per la naturale tendenza che mi porterebbe a trattarli con troppa indulgenza».
È la filosofia, dunque, che deve farsi carico della costruzione del senso delle cose. Studiando il senso, i principi secondo cui le cose si inquadrano nella nostra comprensione. E se c’è un filosofo che mai si è sottratto al corpo a corpo con la fisica, è proprio Emanuele Severino. Dovremmo tutti approfittare di una prossima edizione Mimesis per salire con lui nelle cime di consapevolezza a cui è giunta già la civiltà occidentale. Si tratta delle Lezioni milanesi. Il nichilismo e la terra (2015-2016), curato da Nicoletta Cusano. «Se in relazione al tragitto del sole, che a un certo momento non si fa più vedere nel cielo (teniamo presente che il cielo corrisponde all’apparire, al phainesthai), chiedessimo al cielo: “Cielo, dicci tu che ne è del sole che è tramontato, diccelo in base alle tue capacità”, cosa potrebbe dire il cielo? Che ne sa, il cielo in quanto cielo, che ne è del sole che è uscito da esso? Potrebbe dire il cielo: “Io sono autorizzato a sapere quale sorte ha avuto ciò che ormai non appartiene più al mio aprirmi e a costituire lo spazio della visibilità’? Il cielo corrisponde al phainesthai, all’apparire di tutte le cose che appaiono. Se che ciò che diventa altro non appare più, cioè esce dall’apparire, è impossibile, come accade per il cielo, che si chieda al phainesthai che ne sia di ciò che è uscito dal phainesthai. Il phainesthai, l’apparire, l’esperienza, come lo si vuole chiamare, non dice nulla della sorte di ciò che non appare più».