Il 21 settembre prossimo potrebbe non essere giorno fausto per l’Italia, contrariamente al 29 settembre del 1967, data nella quale l’Equipe 84 cantava l’emozione dell’amore. A dire il vero già il prologo potremmo averlo tra pochi giorni, il prossimo 21 luglio, se il direttivo della BCE decidesse l’aumento di 0,25 punti del tasso di interesse nell’area euro e nel contempo, confermasse l’intento dell’ulteriore incremento di 0,50%, collocato all’inizio dell’autunno.
Nelle valutazioni della BCE, il motivo di tale intervento deriva dall’esigenza di “imbrigliare” l’inflazione, ormai attestata a circa 8% per l’anno in corso. Quali potranno essere gli effetti sul sistema economico e sociale dell’UE, a seguito dei due interventi sui tassi messi in campo dalla Banca centrale nel breve spazio temporale di due mesi, è ancora tutto da comprendere nei suoi effetti, di sicuro negativi per tutti i paesi dell’area Euro, e specificatamente penalizzanti per l’Italia. Il “mantra” insistente sembra essere: dipende da come reagiranno i mercati. Io invece ritengo che tutto possa dipendere da come reagirà il sistema sociale nei suoi vari aspetti, come evolverà la produzione di beni e servizi, e la spesa per investimenti e per consumi privati.
È opportuno evidenziare ancora una volta che la causa dell’impennata dell’inflazione nell’area euro ha una genesi diversa da quella registrata negli USA. Ritenere di dover seguire pedissequamente la ricetta messa in campo dalla Federal Reserve per contrastare la fortissima inflazione americana rappresenterebbe una singolarità preoccupante e pericolosa. Specialmente l’aumento al momento ipotizzato per il mese di settembre potrebbe impattare su una situazione di recessione. La prospettiva assume contorni ancora più rischiosi se guardiamo alla specificità dell’Italia, che deve misurarsi con diverse questioni di fondo, e strutturali, quali il debito pubblico, il più consistente effetto negativo dell’aumento dei tassi per le ricadute sullo spread, l’eventuale differenziale di inflazione, la discrasia in atto tra l’aumento dell’occupazione (pur se sostanzialmente a tempo definito), ed il non conseguente incremento del monte ore lavorate, la dinamica dei consumi privati (ancora oggi non certo brillanti ), la bassa percentuale dell’occupazione femminile e giovanile rispetto al resto dei paesi europei.
È evidente da tutto ciò che l’aumento dei tassi di interesse potrebbe innescare un negativo impatto sul sistema sociale del nostro paese, più accentuato rispetto alla media europea. Gestire l’inflazione senza innescare effetti recessivi, e nel contempo mantenere a livelli accettabili ed equilibrati il tasso di cambio della moneta europea sono tutte insieme questioni che vanno affrontate con un approccio virtuoso e articolato: monetario (la BCE deve poter operare in modo contenuto sul sistema dei tassi); fiscale (la Commissione UE ed i governi nazionali devono operare con efficaci politiche di bilancio, per contenere gli effetti negativi dell’inflazione, la tassa dei poveri).
Nel contesto della gestione complessiva, un’ attenzione particolare necessita la situazione dei paesi del sud Europa; ed in modo più specifico dell’Italia e della Grecia; due paesi con un consistente livello di debito pubblico. Diventa essenziale quindi poter contenere la crescita dello spread sui tassi di interesse per finanziare il debito di questi paesi. Diversamente non si farebbe altro che accentuare ulteriormente gli effetti negativi recessivi; con le ricadute sul Pil. Ma per contenere lo spread è necessario che la BCE perseveri nella sua politica di acquisto di titoli del debito pubblico d’Italia e di Grecia; e ciò non può che avvenire alimentando la liquidità in questi paesi. La BCE, in sostanza, viene impegnata a gestire due fattori tra di loro contrastanti: dover aumentare i tassi di interesse per contenere l’inflazione, quindi ridurre la liquidità; contenere la crescita dello spread acquistando titoli di Stato, aumentando così la liquidità.
La questione ritorna di particolare complessità per l’Italia, e conseguentemente per il governo del nostro paese che deve mettere in campo interventi fiscali idonee ed adeguati; e soprattutto operare in stretta correlazione con la BCE per poter mantenere l’equilibrio finanziario complessivo del sistema paese. Ad oggi risulta ancora abbastanza indefinito, per non dire oscuro, come la Banca centrale intenda intervenire per controllare la eventuale divaricazione dello spread dell’Italia; nonché come intende il governo italiano definire le necessarie politiche fiscali da inserire nella prossima legge di stabilità, e che la commissione Ue possa poi approvare. Soddisfatte queste condizioni, sarà possibile contenere in limiti accettabili gli interventi di aumento dei tassi di competenza della BCE. In questa ottica diventa vitale una incisiva azione del presidente del consiglio Draghi affinché si possa conseguire quel giusto equilibrio ottimale tra politiche fiscali e politiche monetarie; e quindi disinnescare le problematiche dirompenti già registrate e sperimentati in occasione della crisi del 2011; e che ancora oggi non sono del tutto ammortizzate.
In vista della prossima riunione del comitato esecutivo della BCE, va sempre più accentuandosi la pressione dei rappresentanti dei paesi cosiddetti virtuosi, sostenitori di un’azione più dirompente della Banca centrale, che dovrebbe portare entro 2022 all’ incremento dei tassi di due punti (a fronte dello 0,75% ad oggi prospettato). In questa situazione molto fluida, ma anche densa di pericolose incognite, appare alquanto “stonata” ed intempestiva la sollecitazione sempre più insistente rivolta dai partiti politici al governo per ulteriori interventi di spesa, da finanziare con consistenti “scostamenti di bilancio” (leggasi maggior debito). Senza aver però presente che questo tipo di comportamenti può alimentare le riserve mentali dei falchi della BCE nei confronti delle problematiche poste dal governo italiano.
Maggiore debito dell’Italia oggi potrebbe voler dire maggior pericolo di tenuta finanziaria del paese, in conseguenza degli effetti inflattivi in essere che si aggiungono a quelli cronici dell’eccessivo debito pubblico.