La trasmissione su Rai 1 della serie in due puntate Mameli – il ragazzo che sognò l’Italia ha restituito all’immagine del patriota morto a difesa della Repubblica Romana un senso di freschezza capace di renderlo gradito anche alle nuove generazioni, al di là delle inevitabili infedeltà della trama televisiva rispetto alla realtà storica (talora addirittura più avvincente, se ci si riferisce all’epopea del 1849). Nello stesso tempo, tra le onde sempre agitate del WEB, l’evento televisivo ha contribuito a rilanciare una bufala che ha colpito l’autore del Canto degli Italiani. Le bufale denigratorie sui protagonisti del Risorgimento si moltiplicano in maniera tragicomica, complice la inattendibilità o inesistenza delle fonti che spesso caratterizza la comunicazione in rete; stavolta però ci si riferisce a una sorta di leggenda locale, poi amplificata in maniera improvvida, che individua il “vero” autore del Canto degli Italiani in un monaco-letterato di scarsa rilevanza storica: il padre scolopio ligure Atanasio Canata, che avrebbe scritto il futuro inno nazionale nel monastero di Carcare (nei pressi di Savona).
Mameli era troppo giovane per “saper” scrivere un inno di tale complessità testuale? In verità fino agli anni ’50 – ’60 i ragazzi di buona formazione familiare e culturale leggevano moltissimo e i più talentuosi scrivevano benissimo anche prima dei venti anni: Leopardi nell’Ottocento; Gobetti, che nel Novecento muore a 25 anni, a 17 anni fonda “Energie Nuove” e a 21 anni la “Rivoluzione Liberale” tanto per citare alcuni casi. Nella biblioteca personale di Mameli ritroviamo non intonsi i testi di Parini, Foscolo, Leopardi, Gioberti e Cantù, le tracce di letture internazionali che includevano Voltaire, d’Alambert, Rousseau, Madame de Stäel, Byron, Victor Hugo, Alphonse de Lamartine, Guizot, Eugène Sue, Dumas e Gorge Sand.
Viceversa, quali dovrebbero essere le prove documentate di un furto – neppure di un plagio – ai danni del Canata? Non si trova tra le carte di questo onesto letterato di provincia alcun testo che possa corrispondere al Canto degli Italiani. Si tratterebbe quindi di una produzione esoterica in copia unica e mai declamata ad alcun pubblico. Ma la prova provata per i sostenitori dell’Inno di Canata è un verso di qualche anno successivo all’Unità d’Italia in cui padre scolopio poeteggia: “Meditai robusto un canto/ ma venali menestrelli/ mi rapian dell’arpa il vanto”. Versi alati da cui si evincono due cose: il Canata parla, al plurale, di ladri interessati al guadagno, non proprio l’identikit di chi a venti anni sacrifica la vita in una impresa che ai benpensanti del tempo appariva fallita in partenza. Molto probabilmente si riferiva a dispute tra poeti locali.
La seconda cosa ancora più evidente è che i versi del Canata erano di micidiale bruttezza… Il Canata era “per altri versi” persona amabile. Apparteneva a quella frangia molto minoritaria del clero che intendeva superare i privilegi tardo-feudali che la Restaurazione garantiva in virtù dell’Alleanza tra il Trono e l’Altare. Fervente patriota italiano, ostile alla presenza di dominatori stranieri avrebbe voluto che l’opera di unificazione dell’Italia vedesse affratellati Carlo Alberto e Pio IX. A differenza dei neo-guelfi Canata aveva ben chiara la dimensione universale delle aspirazioni della chiesa cattolica per cui non immaginava per l’Italia una “presidenza” papale come Gioberti; per lui l’eletto alla missione risorgimentale era Re Carlo Alberto, al quale andava il suo più deferente rispetto. Le carte autentiche di Canata questo indicano: un lealismo monarchico a tutto tondo.
E invece anche uno studente di liceo si avvede che il Canto degli Italiani è tutto pervaso di mazzinianesimo e di spirito repubblicano. Neppure in un rigo vi è spazio per una corona o un trono né tantomeno per una concezione confessionale della religione: il Dio di cui si parla nel Canto degli Italiani è il Dio di Mazzini che ispira il popolo alla l’eticità dell’azione. I sostenitori del “furto” sostengono anche come ipotesi ad hoc che Canata avrebbe poi taciuto riguardo alla sua paternità del testo per rispetto di un giovane eroe morto nella difesa di Roma nel 1849. Questa arrampicata sugli specchi è contraddittoria rispetto alla citazione dei versi in cui il padre avrebbe denunciato “ignoti” di furto per avidità di guadagno (i venali menestrelli di cui sopra).
Ma il punto è che l’Inno era ben conosciuto prima della Repubblica Romana e Mameli era diventato famoso come il suo autore. L’Inno fu cantato a Genova, poi a Milano, giunse a Roma insieme al poeta come un testo già battezzato in rivolte patriottiche settentrionali. Canata per tutta la sua vita rimase un oscuro letterato di provincia, invece Mameli giusto un anno dopo la composizione di “Fratelli d’Italia” ebbe l’onore di veder musicato da Verdi un altro suo inno “Suona la Tromba” … e guarda caso anche stavolta ritornano i temi del precedente Canto: Roma, l’azione d’armi necessaria, il riferimento al Dio di una religione civica (“il Dio dei forti”) e nessun richiamo a un trono, a una dinastia.
Ma allora di che stiamo a parlare? Non nelle intenzioni di chi ha voluto dare un corredo di dignità accademica a questa tesi, ma sicuramente in quelli che la propalano col tam tam di internet vi è la palese volontà di infangare i protagonisti del Risorgimento: Mameli ladro di versi, come Garibaldi ladro di cavalli… e magari è stato tutto un imbroglio, se l’Inno l’ha scritto in realtà un padre scolopio nel suo monastero! Come antidoto a simili oscenità non rimane che tornare a studiare: la Storia rigorosamente documentata, ma forse ancor più i fondamentali della Logica.
Foto Monumento a Mameli di Luciano Campisi | Panairjdde | CC BY-SA 3.0