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Essere e politica. Dialettica e umanità nello spazio della storia

di Mauro Cascio
13 Luglio 2021
in Cultura, La Biblioteca Repubblicana
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Ci sono pagine migliori di quelle di Alberto Moravia per descrivere la solitudine dell’uomo? Ne Gli indifferenti ogni soggetto è isolato nel suo perimetro, vive il suo presente per paura del domani, vorrebbe un futuro diverso, ma ne ha paura, perché vorrebbe dire perdere una zona che ormai è diventata abitabile. Non è solo un’acida lettura del tramonto dell’epoca e dei valori borghesi, è lo specchio di un mondo che guarda in faccia il suo destino. Quando si perde il senso dello stare insieme, la famiglia nel caso di Mariagrazia, il resto è annoiata abitudine e paura di perdere l’acquisito benessere. Una lettura che è anche sociale, perché questo isolarsi vuol dire non comunicare, vuol dire abitare un bianco e nero che è delle cose e delle persone, come la splendida fotografia di Gianni Di Venanzo nella trasposizione cinematografica di Francesco Maselli, tutta giocata sulla sottoesposizione, tanto che la protagonista (Paulette Goddard) durante le riprese esclamò: «Accendete la luce, qui non ci si vede».

Di questa assenza di luce ci parla Antonio De Simone nel suo Essere e politica. Dialettica dell’umano, edito da Mimesis.  L’inquieto vincolo degli uomini che nel teatro del mondo mettono in scena le contraddizioni non ricomponibili del reale, con tutta la vacuità del loro dire, del loro fare, del loro istituire, “nell’irriducibilità del circolo del vivente tra essere e politica”. A questo dovrebbe servire la filosofia, a salvarlo da questa inquietudine, cioè accendere la luce e annullare i chiaro-scuri, “salvare l’uomo nella finitezza e nella temporalità dell’esserci”, restituirgli, in una parola, la dignità.

Ma il destino umano ha un nuovo spazio e un nuovo tempo con cui fare storia. Chi più di tutti ha saputo leggere il tempo come denaro e il mutamento fatto di rapporti monetari è stato Georg Simmel, che proprio De Simone si è sforzato di fare conoscere in Italia. Per Simmel il denaro è “un’inarrestabile ruota” «che dinamizza ogni forma, che produce nella vita moderna un’inquietudine, una febbrili, un attivismo ininterrotto, che alterano, a loro volta, la percezione stessa del tempo. Quanto più il denaro si dematerializza, quanto più la sua circolazione diventa vorticosa, tanto più il tempo sociale sembra velocizzarsi e il mutamento non è più l’evento eccezionale, ma lo stato normale della vita sociale» (Maniscalco). Infatti, nella società moderna “non solo il tempo è denaro, secondo il noto aforisma di Franklin, ma anche il denaro è tempo; i due termini si equivalgono all’interno di una cultura ormai compiutamente razionalizzata  e laicizzata che indica la produttività oggettiva, contabilizzatile come l’unico valore dell’attività; neutro essendo il tempo, neutra è pure la moneta”.

Il denaro invade i nostri spazi. Anche se il nostro ormai è un “paesaggio senza luoghi”, non siamo più luoghi, non abitiamo più luoghi: “non ha limiti [….] il divenire urbano dell’essere che vive sempre più una complessa contingenza post-metropolitana sia geopolitica sia geografica e sociale. «Per Recalcati, interprete del pensiero di Lacan, il discorso del capitalista ha tradotto in effetti  la parola del desiderio “nel culto frivolo dell’homo felix”, impegnato “nella ricerca della propria felicità individuale” e al “servizio dell’Io autonomo che pretende di diventare il padrone assoluto di se stesso”. Il grande disagio è questo: abbandonare la prospettiva Repubblicana, che è quella in cui gli individui costruiscono con i loro spazi e le loro libertà lo spazio collettivo e condiviso. La Repubblica è anche un patto che è reso vivo da ogni singolo individuo. Dalle solitudini e dai silenzi nessuna istituzione pubblica è possibile. Dalla lotta del singolo contro il singolo c’è solo un tappeto di egoismi dove vince il più forte. La Repubblica è il posto dove anche i chiaroscuri danno contrasto e non sono semplicemente buio. Il posto cioè dove il dettaglio non è uno squarcio della tela che dissolve l’opera, ma è l’opera stessa. Rinunciare a questo vuol dire dare forza ai particolari isolati ed egoisti. E anche al ‘paradosso dell’iperedonismo’ che “si riverbera nella precarizzazione attuale della vita, nella fede dell’oggetto feticcio, nell’oggetto-marca, nell’oggetto-idolo, ovvero nell’oggetto che promette la guarigione dal “dolore di esistere” che fa vacillare “sotto i colpi sordi di un immiserimento e di una spogliazione” la nostra esperienza di mondo.

Un destino senza volto, una condizione umana che non puoi descrivere se non in maschera: perché è così che ti presenti sul palcoscenico del mondo. E lo studio e la riflessione appare come l’unico modo per dare un volto al destino e dis-velare l’oscurità ultima. Certo più utili delle friggitrici ad aria. Le cerchi per mesi. Poi una prova con le patatine, un’altra con i calamari. E le metti via per sempre.

Mauro Cascio

Mauro Cascio si è laureato in Filosofia a La Sapienza di Roma. Ha organizzato numerosi eventi culturali in Italia e all'estero, dalla Biblioteca del Senato al Pembroke College dell'Università di Oxford, attività grazie a cui ha vinto il Premio Nazionale di Filosofia nel 2013. È curatore di numerosi saggi, nonché prolifico autore. Al suo terzultimo libro, «Davanti alla fine del mondo» si è ispirato il cantautore Roberto Kunstler per il suo omonimo lavoro. Ora è in libreria con «Un pozzo di abati e di principi» e con «Il fulmine della soggettività. Attraversamenti hegeliani dall'infinita periferia». È coordinatore di direzione de La Voce Repubblicana

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