A Hegel è sempre stata imposta una maschera conservatrice, da parte di un pensiero che lo ha voluto totalitario, pensiamo su tutte alla lettura di Popper. «Lo Stato in questa filosofia è l’abisso senza fondo che ingoia tutto il resto digerendolo per il suo scopo», si scriveva. Chi ha contribuito a togliere questa maschera restituendo ad Hegel la sua autenticità è stato Karl Heinz Ilting che ha evidenziato come i grandi temi delle tradizioni liberali fossero sempre ben presenti almeno nell’opera più importante dell’Hegel politico cioè i Lineamenti di filosofia del diritto. Nella prima e nella seconda parte del volume Hegel tenta un accordo tra due sistemi di norme diverse, il diritto astratto e la morale: il diritto razionale individualistico contiene le norme che regolano le azioni esterne, la teoria della moralità espone i principi secondo i quali il soggetto morale esegue le sue azioni. I due sistemi di norme appartengono ai presupposti necessari dello Stato moderno. Nelle prime due parti quindi Hegel ha esposto i tratti fondamentali di una filosofia pratica che poggia sulla moderna distinzione e separazione tra legalità e moralità. È necessario che gli individui cerchino di realizzare la loro legittima aspirazione alla felicità e al benessere ma nei limiti del bene comune. Cioè è necessario che in caso di conflitto le pretese giuridiche che potrebbero essere derivate dal diritto razionale individualistico, vengano messe da parte a favore del bene di tutti o di un singolo, e che tutte le pretese dei singoli riguardo al proprio diritto e al proprio benessere vengano equilibrate tra di loro. Tutte le volte che questa norma fondamentale è riconosciuta e viene fatta massima dell’agire, l’impostazione individualistica viene abbandonata e l’unione degli uomini viene dichiarata obiettivo supremo dell’agire. Assoggettandosi a questa norma gli uomini non sarebbero più limitati nelle possibilità del loro agire dall’opposizione di una volontà estranea.
Quando Giuseppe Mazzini legge una traduzione di Hegel commenta per lettera all’amico che ne ha curato la traduzione: «L’approvo in tutto; già sapete che appartengo allo stesso ordine di idee». Perché il classicheggiante concetto di Stato di Hegel, come lo chiama Ilting, è completamente repubblicano. Cioè “orientato sul modello di una comunità politica facilmente abbracciabile in un unico sguardo in cui tutti i cittadini liberi prendono parte immediatamente agli affari politici e nella conservazione della loro cosa pubblica hanno lo scopo comune del loro agire”. «Questo scopo comune non è, per loro, niente di immaginato, che sarebbe ancora da realizzare, per loro esso è già realizzato nella loro comunità politica e quindi è divenuto mondo esistente». Di conseguenza per ogni individuo questo scopo finale, realizzato, si presenta come ‘essere’, come ‘qualcosa di oggettivo’ ossia come ‘sostanza concreta’. Hegel lo chiama ‘fine motore’ o addirittura, con una espressione presa dalla teologia di Aristotele, il “fine a se stesso” che muove i singoli cittadini, ma esso stesso è “assolutamente immoto”.
Insomma, nel cuore della filosofia politica di Hegel c’è la concezione di uno Stato in cui “l’universale e il particolare, la sostanzialità e la soggettività, sono uniti tra di loro in modo che entrambi si fanno pienamente valere e si integrano reciprocamente: di uno Stato, dunque, in cui l’aspirazione degli individui al libero sviluppo e all’autodeterminazione viene appagata proprio come la comunità politica viene riconosciuta quale dimensione storica che oltrepassa tutti gli interessi soltanto individuali e privati». Così inteso lo Stato è “unità sostanziale”, nella quale “la libertà giunge al suo diritto supremo”. È questo l’elemento caratteristico della tradizione repubblicana, ed è questo che veniva percepito in Hegel non solo da Mazzini ma anche dal principe ereditario, il futuro Federico Guglielmo IV che invitato Hegel a tavola, si lamentava delle lezioni di un suo assistente, Eduard Gans: «È uno scandalo che il prof Gans ci renda repubblicani tutti gli studenti».
La divisione dei tre poteri statali, di cui Hegel si occupa, segue un ordine dialettico mutuato dalla Scienza della Logica. Il potere legislativo ha il compito di determinare l’universale, al potere governativo spetta di sussumere le sfere particolari e i casi singoli sotto l’universale, mentre la soggettività, la decisione ultima di volontà, spetta al Sovrano, unione di legislazione e governo, sintesi di universalità e particolarità, quell’autorità dello Stato il cui compito consiste nel “dire di sì” e nel “mettere il puntino sulle i”, secondo una espressione diventata celebre. Nell’interpretazione di Rudolf Haym questo non sarebbe il fondamento o anche soltanto la cupola dell’edifico ma tutt’al più la croce che sta sulla sua sommità. Certo quel punto, chiosa Rosenweig, ha bisogno della ricchezza delle necessità storiche dello Stato, perché vi si possa mostrare attivo e possente. Il monarca, diciamo meglio, non è colui che effettivamente agisce, ma colui che a tutte le azioni dello Stato aggiunge il suo nome. Il suo nome è perciò nello Stato “il legame e la sanzione sotto cui tutto in generale accade”. Una idea di potere che certo non era l’idea che lo stato prussiano aveva di sé.
Nella Prefazione ai Lineamenti della Filosofia del diritto Hegel si rifiuta di parlare dello Stato di come dovrebbe essere, di una astrazione utopica, ma la filosofia si occupa dello Stato che è. Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale. La realizzazione della ragione, non è una lotta, con un ideale a cui tendere con rivoluzioni per esempio, ma è più simile a un’emanazione che produce “un’infinita ricchezza di forme, fenomeni e aspetti” come “corteccia variopinta” intorno al nucleo sostanziale. Il presente è una croce e, per la ragione, si tratta di riconoscere “la Rosa nella croce del presente”. Vedete quanto siamo lontani dalla Repubblica di Platone? La filosofia politica si era presentata sempre in opposizione al reale; la sostanza non era immanente ma un al di là. Per questo rapporto Hegel nella Fenomenologia dello Spirito usa il termine “alienazione”. Tanto è lontano, in Hegel, l’eterno dall’essere presente.
Questo Stato si può permettere “un’infinita indifferenza di fronte all’opinione”, poiché questa si costituisce come esistenza universale che corrode. Lo Stato deve invece prendere in protezione la verità oggettiva, i principi della vita etica. Partendo da questo punto di vista Hegel caldeggia l’istituzione di un organismo statale per le recensioni e il potenziamento della posizione giuridica dei funzionari: il funzionario non doveva essere un impiegato statale, legato al suo servizio solamente per necessità, senza vero dovere e parimenti senza diritto. Hegel vuole in realtà una comunità filosofica di élites che nella solitudine si preparava a lavorare per un mondo futuro non sottomettendosi fino a quel momento né all’autorità della fede né all’autorità del potere. «La filosofia è un santuario appartato e i suoi servitori costituiscono un ordine sacerdotale isolato, che non può associarsi al mondo e deve custodire il possesso della verità». E dopo la morte di Hegel gli hegeliani sono diventati come apostoli. Nell’ufficio funebre, presso l’Università di Berlino, il rettore Marheineke disse: «A somiglianza del nostro Redentore […] che andò incontro al dolore e alla morte per ritornare eternamente come spirito alla sua comunità, anch’egli è ora tornato alla sua vera patria e, attraverso la morte, è passato alla resurrezione e alla gloria. Perciò anche noi, che siamo chiamati a vivere nello spirito, dobbiamo purificare il nostro dolore per lui e trasfigurarlo nel genuino dolore dello spirito, continuare con coraggio ciò che egli ha voluto e soltanto accennato e renderlo comprensibile a tutti».
Foto George Hayter – Frederick William IV, Re di Prussia – RCIN 406221 – Royal Collection | CC0