Il governo italiano ha fatto una scelta per lo meno singolare, quale quella di indire cinque giorni di lutto nazionale per la morte del pontefice. Forse a Palazzo Chigi non si sono resi conto, o forse si, che in questo modo veniva investita una giornata di festa come quella del 25 aprile, gli ottant’anni della Liberazione. Non fosse già cosa discutibile rimettere le ricorrenze della propria sovranità nazionale alle esequie di un capo di Stato straniero, perché stabilire un periodo tanto lungo. Quali che siano i sentimenti e la dovuta riverenza verso il pontefice, il lutto per la morte di papa Woytila, fu di tre giorni. Confermarlo avrebbe posto una regola, anche considerando che un papa italiano, monsignor Montini, ne ebbe uno, come il povero Giovanni Paolo primo. Il governo ha invece creato un precedente, tale per il quale il lutto per Bergoglio sovrasta quello per i suoi predecessori. Se è vero che per la morte di Giovanni XXIII si rinviò la festa della Repubblica del due giugno, il papa era agonizzante, in questo caso ci sarebbe stato persino il tempo per chiedere alla Chiesa cattolica di anticipare i funerali del pontefice al giorno 24. Non che sia edificante negoziare con la Chiesa questioni tanto gravi, ma è lo Stato italiano a garantire la sicurezza dell’ evento e il Vaticano avrebbe anche potuto comprendere le ragioni di una simile esigenza, oppure no e rifiutarla.
Nulla di tutto questo è stato preso in considerazione. Semplicemente il governo ha deciso che una festa della Liberazione, venisse risucchiata e oscurata, come ha detto un telegiornale e fin qui pazienza. Può darsi benissimo che il governo abbia ritenuto per il meglio, valutato tutte le opzioni possibili e scelto il bel gesto di dare il massimo risalto ad una figura tanto rilevante della cristianità, per cui il mondo intero si è commosso. Magari si tratta di una scelta che non si condivide, il direttore della Zanzara, Giuseppe Cruciani, è insorto in trasmissione contro la decisione presa, e pure resta comprensibile e ci si rassegna. Quello che proprio non è possibile capire è l’interlocuzione di un ministro, il ministro della protezione civile, che raccomanda una festività “sobria”. Allora viene il dubbio se mai al governo considerassero la festività del 25 aprile, una festività ebbra, da ubriaconi di strada. Il 25 aprile è la data della Liberazione dall’occupazione nazista, della disfatta della sua sottoposta e miserrima Repubblica sociale, l’inizio della vita democratica italiana, conquistata armi alla mano accanto agli anglo americani. Dispiace contraddire il presidente del Senato, non è qualcosa di “antico”. Antico è Menenio Agrippa. La data del 25 aprile è attualissima, tanto che il capo del governo si vanta delle relazioni con il presidente statunitense che pure non è un Roosevelt, è solo un Trump. Se poi Trump superasse Roosevelt tanto meglio, certo è parecchio distante.
Ci sarebbe da credere che vi sia un qualche problema di riconoscimento dell’identità nazionale del paese da parte del governo. Cioè, il governo non si riconosce fondamentalmente nella prospettiva che da Ventotene porta alla Liberazione dell’Italia ed alla democrazia europea. Questa prospettiva si chiama antifascismo e la Costituzione su cui il governo ha giurato, ne è l’emblema. Poi uno può essere anche anticomunista, eccellente, ma l’anticomunismo non è un presupposto fondativo della Repubblica, è una scelta politica, cosa diversa.
Il 25 aprile se ne vedono di tutti colori, è vero. Dai fischi alle medaglie al valore alla resistenza, alle contestazioni di coloro che hanno combattuto veramente, e quant’altro. Il pluralismo ha dei difetti. Dopo un ventennio di monopartitismo, censura, violenze, confini ed arresti di Stato, si possono pur sempre affrontare queste intemperanze con una dose sufficiente di fermezza. Mentre un governo che in ogni occasione si dimostra estraneo alla storia della Repubblica, alla lunga, è destinato a diventare insopportabile alla nazione.