È stata una scelta felice quella di Rai tre di rimandare in onda, a solo un anno di distanza dalla prima visione, lo sceneggiato di Marco Bellocchio, Esterno notte, sul sequestro di Aldo Moro, nel 45esimo anniversario della morte. Anche se la versione di Bellocchio non può prescindere dalla rielaborazione artistica dell’autore, il documento è destinato a fare storia, in particolare quella della televisione pubblica che ha commissionato e prodotto una simile rappresentazione. Sul sequestro Moro sempre Bellocchio si era cimentato nel 2003 con “Buongiorno notte”. Lo sceneggiato Rai è molto più ricco. Offre uno scorcio politico di cui era affatto priva la versione cinematografica precedente. Il sequestro Moro avviene a ridosso della seduta della Camera in cui si vota la fiducia al governo Andreotti con l’ingresso in maggioranza del partito comunista. Un’impresa che il presidente democristiano si era messo sulle spalle, con tutta la sua determinazione e la sua energia. Non è tanto importante per Bellocchio capire un passaggio così rilevante della vita politica interna ed internazionale, Bellocchio non è uno storico. Piuttosto è affascinato dalle resistenze a un simile ampliamento della base parlamentare del governo, il Pci era ancora legato a Mosca, all’altra parte della cortina di ferro. Se il centrosinistra era stato già di per se problematico, servì il nulla osta di Kennedy, quale sarebbe stata la ricaduta con il Pci? E se la Dc era stata così riottosa a farsi convincere a compiere un simile passo, il Pci come viveva la scelta inedita? Fino al 1975, lo Stato democristiano era visto da quel partito in piena continuità con quello fascista. Era stato Pietro Ingrao a sfatare il tabù, Masse e potere, Editori riuniti, e diventare presidente della Camera.
Bellocchio ha un sospetto. Senza l’effetto del sequestro, i gruppi parlamentari comunisti avrebbero potuto contraddire la linea nazionale. Senza la morte di Moro, il governo Andreotti sarebbe saltato. È un aspetto molto delicato da gestire. Il distacco e la criminalizzazione delle brigate rosse da parte dal partito comunista. Le Br non sono più “compagni che sbagliavano”, sono assassini. La strategia della fermezza si inserisce in una dialettica per cui non è tanto lo Stato che deve mostrarsi saldo, ma il mondo socialista, la sinistra marxista, che deve isolare la componente che lotta con le armi per la presa del potere. Il potere si prende in Parlamento, alla faccia di Vladimir Ulyanov Lenin.
Perché non cercare comunque una estrema mediazione anche con i disgraziati puri leninisti rimasti? In fondo Moro stesso è disposto al riconoscimento, alla trattativa: perché rifiutarla e condannarlo? Bellocchio ricorre alla suggestione più che alla documentazione, ma il punto è storicamente accertato, solo un pazzo può chiedere allo Stato di cedere. Moro è condannato, la tesi dello sceneggiato è che la Dc, il governo uccidono Moro, quando le Br premono solo il grilletto. Si pretende che lo statista difenda il punto di vista dello Stato. Moro che dice perché dovrei essere pazzo solo perché voglio salvare la mia vita, crea sconcerto. Eppure Moro non è affatto pazzo, invece non è disposto a immolarsi per lo Stato. Non era disposto a vedere la Dc processata nelle piazze, figurarsi se poteva accettare che la sua persona venisse condannata da dei ragazzotti senza Dio e senza legge. Lo Stato poteva salvare Moro trattando con le Br, avesse avuto a disposizione una legislazione eccezionale. La Malfa chiese in aula la pena di morte e si pensò che ebbe un attacco di bile, quando in realtà chiedeva allo Stato lo strumento per salvare Moro. Lo libero e poi soffoco tutti i brigatisti sulla base della legge, quando la Germania regolò la banda Baader Meinof, senza preoccuparsene. Ma non c’era La Malfa al vertice dello Stato, c’era la Dc che voleva i voti comunisti.
Al di là del dato politico su Moro, Bellocchio mostra un caso nel caso, ovvero come i brigatisti che pure sono tutti schedati, passino immuni alla rete dei controlli, persino in maniera paradossale, per cui sembra incredibile che non vengano presi, che tutto questo dispiegamento di forze e l’impegno profuso non portino a niente, quando pure sembrano tutti essere lì a portata di mano delle forze di polizia. Questa incredibile inefficienza, questo fallimento è la pena più grande da sopportare e probabilmente il peso che ha finito per trascinare a fondo un’intera epopea. Non è il giudizio morale sulla classe dirigente a portare alla crisi che si consumerà venticinque anni più tardi, quanto l’incapacità e la superficialità dimostrata e forse, perché no, la compiacenza.
Foto Archivio storico Camera dei Deputati, galleria