Ogni anno, ogni Premio Strega, io sono qui a farmi le stesse domande. Che poi, più o meno, sono le domande che mi faccio a Sanremo. Ha a che fare, il mio interrogarmi, con la gara. Come faccio a dire che un libro è più bello di un altro? Qual è l’unità di misura della bellezza o della bravura? Posso dire, certo, che una lettura è originale, è erudita, è avvincente ma come faccio a dire che quel racconto è da preferire a quell’altro? Esiste un criterio oggettivo, una qualche misurabilità estetica, una pesistica del bello che metto in un piatto e verifico se questo, quello, o quell’altro pareggino il peso e allora se i piatti sono in equilibrio dico sì, questo libro è bello tot?
Cosa si fa invece in questi premi? Intanto si torna, intenzionalmente o inconsapevolmente non spetta a me dirlo, a confondere bellezza e gusto. Cioè io non posso dire se un romanzo è bello, posso dire se mi piace. Certo, potrei fare valutazioni tecniche sulla forma, ma un bizantinismo erudito può essere brutto e non piacermi. Allora cosa facciamo? Una conta empirica. E cioè siamo x persone a giudicare e ci mettiamo a votare. A me è piaciuto di più questo a me più quello. Stiamo ottimizzando in questo mondo un’incertezza in nome di una classificazione possibile. E facciamo finta che un’astrazione indotta da dati empirici, a me piace quello, a te quell’altro, a lui quell’altro ancora, diventi un che di universalmente valido. Con tutti i rischi del caso. Che cioè il libro più votato non sia il più bello (visto che non ci siamo affatto messi d’accordo sullo statuto della bellezza e sui criteri della sua misurabilità), ma quello che è andato incontro a un segmento di gusto, il nostro che siamo gli giurati che votano. La mossa successiva è quella di ogni ragionare alla buona e cioè ritenere che il mio gusto sia superiore a quello degli altri, perché io sono il giurato, gli altri no. Io sono colto, gli altri no. Io ho inarrivabili strumenti esegetici e valutativi, gli altri no. Si finisce allora per pettinare vezzi, per immaginarsi educatori del gusto altrui, per non dire del rischio che l’opera si faccia e diventi pedagogica nel senso più deteriore, cioè strumento di propaganda, con scarpe fucsia Valentino e coccarde queer.
Come d’aria è un bel libro? Piace? O ha colpito la biografia dell’autrice? Perché di questo parla il libro. Una grave malformazione cerebrale ha reso invalida la figlia. Si parlò di lei per una lettera che scrisse ad Augias su Repubblica rivendicando un “diritto all’aborto” per casi come il suo: «Figlia mia imperfetta, ti amo immensamente, ma avrei preferito non averti», è il titolo dell’articolo di Elena Stancanelli (la giornalista che l’ha proposta in gara). Ada D’Adamo ha anche avuto un tumore che l’ha portata alla morte, lo scorso aprile. Si tratta, dunque, di una vittoria postuma. Siamo sicuri che sia un prodotto letterario d’eccellenza, possiamo escludere del tutto che il voto non sia frutto di una condivisa emotività? Non si rischia di sacrificare alla volubilità di un giudizio immediato opere che probabilmente avrebbero meritato di più?
Per fortuna che c’è Geppi Cucciari in diretta tivvù che quest’anno ci ricorda che i libri possono leggersi anche dentro, senza rimanere per forza alla copertina. La sua presenza ci ricorda, e capirlo una volta per tutte ci evita almeno altre imbarazzanti domande, che cos’è la cultura oggi in Italia. Cabaret.
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