L’amico Tommaso Alessandro de Filippo è intervenuto sulla questione Rafah
L’operazione israeliana a Rafah avviene nel pieno rispetto del diritto internazionale e con l’approvazione dei piani operativi da parte degli Stati Uniti. A Washington conoscono la strategia militare che l’IDF opera nell’ultima roccaforte dell’organizzazione terroristica palestinese e ne condividono il lo scopo: rendere la striscia di Gaza territorio inoffensivo per Israele in futuro. Recentemente l’opinione pubblica occidentale si è concentrata sulla scelta annunciata dall’amministrazione Biden di sospendere l’invio di alcuni armamenti ad Israele, per presunti timori in vista dell’operazione a Rafah. Una decisione politicamente sbagliata perché equiparabile ad una concessione ai terroristi e lesiva nei confronti della dignità morale di Israele ma, al tempo stesso, puramente scenografica.
Quanto necessario in termini di armamenti ad Israele per operare nella striscia di Gaza, pure a Rafah, è già stato inviato da mesi dagli Stati Uniti. I piani dell’IDF sono stati presentati progressivamente nel corso delle prime settimane del conflitto ed accettati, sia pure con fisiologiche divergenze rispetto alla conduzione dello stesso, da apparati e vertici istituzionali americani. Israele ha ottenuto quotidianamente armi in un numerico molto superiore rispetto alle qualche migliaia di munizioni ad attacco diretto congiunto (JDAM) e bombe temporaneamente negate dall’amministrazione Biden. Quella del presidente americano è infatti un’azione dettata dal tentativo di placare la fetta di opinione pubblica interna più agguerrita contro Israele, che si teme possa scatenare rivolte sociali e tensioni simili a quelle condotte dal movimento Black Lives Matter nel 2020. La sua mossa per quanto infelice politicamente è incentrata esclusivamente sull’immagine, piuttosto che sulla volontà effettiva di bloccare le operazioni israeliane a Rafah. Essa è stata comunque duramente contestata dal Dipartimento di Stato che, tramite funzionari anonimi, l’ha definita esagerata ed ingiusta, anticipando la volontà di operare per sbloccare le forniture sospese ed evitare che decisioni simili si ripetano.
Gli Stati Uniti d’America comprendono perfettamente che senza l’eliminazione di Hamas qualsiasi ipotesi di stabilizzazione del Medio Oriente è impossibile. Inoltre, capiscono che affidare la striscia di Gaza ad una coalizione internazionale guidata dall’Onu o dai paesi arabi con ancora la presenza della fazione terroristica palestinese all’interno sarebbe impensabile. Da qui la necessità di sostenere e permettere a Gerusalemme di proseguire nella conduzione delle ostilità, al fine di raggiungere degli obiettivi strategici sovrapponibili a quelli americani. Al netto della propaganda da campagna elettorale e delle uscite pubbliche di alcuni rappresentanti politici da Washington non si è mai tentato realmente di imporre ad Israele di cessare definitivamente gli attacchi contro Hamas. Lo stesso governo di Gerusalemme ha ascoltato le preoccupazioni del suo alleato e favorito l’incremento degli aiuti umanitari entrati nella striscia, oltre a compiere ogni tentativo richiesto dal diritto internazionale per permettere ai civili di evacuare dalle aeree di guerra. Non c’è ragione per credere che nel prossimo futuro lo status quo possa modificarsi se si considera che la guerra sia ormai quasi giunta al termine: Israele dovrebbe riuscire a completare l’operazione a Rafah entro poche settimane, catturando o eliminando il principale capo di Hamas, Yahya Sinwar, che è nascosto nei tunnel sotterranei della città. Ottenuto questo risultato resteranno da compiere solo attacchi mirati contro alcuni gruppi residui di miliziani e raid precisi contro i vertici di Hamas ancora in vita, residenti in altri paesi mediorientali. Un fattore che potrebbe alleggerire la tensione e consentire di placare il clima antisemita presente nell’opinione pubblica occidentale, grande al punto da condizionare le scelte dei vertici istituzionali.