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Il più grande presidente della storia americana

Riccardo Bruno di Riccardo Bruno
21 Luglio 2024
in L'editoriale
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Ho studiato insieme a nessuno, Abraham Lincoln

A titolo universale, con irrilevanti eccezioni critiche, il più grande presidente della storia americana è Abraham Lincoln. Se Washington aveva fatto una guerra per liberarsi dal dominio coloniale, Lincoln ne fece una molto più feroce ed ai suoi stessi connazionali, utile ad instaurare il mito dell’autorevolezza dello Stato. Analizziamo pure la figura politica di Lincoln finché vi pare, non c’è una spiegazione diversa per tanto solenne encomio.

Nato in un capanna in Kentucky, nipote di un ufficiale di cavalleria trucidato dagli indiani, bighellone svogliato ed autodidatta, volontario nella guerra contro il capo Falco Nero, mediocre avvocato dell’Illinois. Di particolare nel suo mandato di parlamentare c’è la capacità di barcamenarsi nella crisi del partito Whig, fino ad aderire a quello Repubblicano. Piuttosto, quando si candida alla presidenza spolvera un argomento formidabile, la sua lotta personale con la povertà. Lincoln è l’esempio vivente di come un ragazzo spiantato riesca a farsi strada sulle sue sole forze. La biografia di Lincoln è un successo editoriale che lo porterà dritto alla Casa Bianca. Ed ecco il suo discorso d’insediamento. “Non ho alcuna intenzione, direttamente o indirettamente, di interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati in cui essa esiste. Credo di non avere alcun diritto legale per poterlo fare e non ho d’altra parte neppure alcuna inclinazione a farlo”. Gli stessi agiografi di Lincoln sono costretti ad ammettere che egli sopravvalutò l’attaccamento degli Stati del sud all’unità nazionale e non si rese conto della loro indisponibilità a separarsi dallo schiavismo sulla base della sola carità cristiana. D’altra parte Lincoln non aveva particolare interesse all’integrazione, la sua idea era di trasferire, qualcuno direbbe deportare, gli schiavi liberati, in Liberia. In sostanza non c’è uno straccio di programma di come supplire la ricchezza del sud fondata sullo schiavismo, se non un processo forzato di modernizzazione economica a cui si ricorrerebbe inevitabilmente e non si sa come. L’asso nella manica per riunificare il paese, è la guerra indiana che inizia già durante quella di secessione offrendo ai confederati prigionieri la possibilità di formare reparti misti contro i nativi. Anche per le truppe dell’Unione la guerra ai selvaggi, che massacrano i banchi appena li incontrano, è preferita a quella per abolire la schiavitù. Le statistiche indicano che si disertava più volentieri contro i texani e pure quelli non ti toglievano lo scalpo.

Oggi è facile dire che il nord essendo più industrializzato era avviato alla vittoria militare grazie a risorse e mezzi. All’epoca invece, tutto questo vantaggio sul campo, dal 1861 al 1863, non si vede proprio. Il nord subisce batoste impressionanti, tali che chiunque l’avrebbe piantata lì. Non Lincoln. Le truppe confederate saranno pure più deboli ma sono più motivate e hanno comandanti molto migliori, i primi cadetti di West Point sono confederati, come “Stonewall” Jackson e “Jeb” Stuart, generali che avrebbero fatto gola a Bonaparte. In compenso il comandante in capo dell’esercito confederato Lee, checché se ne sarebbe poi detto, non ha nessuna idea strategica e lo dimostra a Gettysburg dove manda allo sbaraglio tutto il suo esercito. Il disastro di Gettysburg cambia la guerra e non per il genio di Lincoln, ma solo per gli errori clamorosi di sufficienza di Lee. In breve moriranno i migliori comandanti sudisti e finalmente l’unione trova generali di una qualche qualità. Il punto è che quando Stuart arriva ad Hannover, l’Unione è ad un passo dalla disfatta. Nemmeno il segretariato alla guerra sa come è riuscita a salvarsi, la leggenda delle cariche di Custer è appunto una leggenda. Più facile che il comando confederato si sia sbriciolato, quando Lincoln con Grant ha trovato finalmente una mano ferma, quella della “guerra totale”. La guerra totale la inventa il governo giacobino e la applica su piccola scala in Vandea. Lincoln la porta su larga scala negli Stati confederati. Sessanta mila morti in Vandea, contro i seicentomila del Sud, queste le cifre, sicuramente per difetto, più o meno ufficiali.

Vi sarebbe da discutere se davvero un presidente degli Stati Uniti che ha vinto una guerra di questa portata non sia preoccupato della sua incolumità, per cui la sera del trionfo se ne vada tranquillo a un teatro frequentato abitualmente da attori della confederazione. La magistratura fu militare, i responsabili eliminati a vista e l’unico processo di cui ci sono gli atti riguarda la madre di uno degli imputati. Solo la commissione Warren saprà fare peggio. A parte l’assassinio, che cos’è che ha contribuito all’aurea di Lincoln? Un principio positivo. Nemmeno la Rivoluzione francese aveva abolito la schiavitù, se non per rimangiarsi il decreto subito dopo. I giacobini francesi erano razionali, Lincoln non sembrerebbe. Per quanto il principio abolizionista fosse ancora astratto si sarebbe imposto come un ideale travolgente. Questo spiega bene il successo di Lincoln, saper ottenere un risultato riconosciuto giusto a qualsiasi costo. Una grande nazione come quella americana vacillerà quando un principio altrettanto comune, la difesa del Vietnam del sud, davanti ad un’aggressore armato, fallisce. Su questo si misurano ancora le presidenze statunitensi e le loro potenzialità di apprezzamento nei tempi futuri. Postosi un obiettivo bisogna raggiungerlo. Altrimenti, non viene concesso nessun onore, soprattutto, nessuna gloria e si finisce come un Jimmy Carter qualunque.

licenza pixabay

Tags: CarterLincoln
Riccardo Bruno

Riccardo Bruno

Riccardo Bruno si è laureato in Storia della Filosofia presso l'Università di Roma La Sapienza nel 1988. Dal 1987 al 1989 collabora all'Ufficio esteri del PRI diretto dall'onorevole Vittorio Olcese. Dal 1994 è capo ufficio stampa del PRI, dal 1995 giornalista professionista iscritto alla stampa parlamentare. Nel 1999 è capo redattore de La Voce Repubblicana. È stato poi editorialista per il Foglio di Giuliano Ferrara e l'Indipendente di Vittorio Feltri. Dal 2019 è prima vice direttore de La Voce Repubblicana e poi direttore politico

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