Il prossimo 12 giugno si voterà su 5 quesiti referendari sulla giustizia. Il PRI di Cesena ritiene che non sia facile orientarsi fra i quesiti dei referendum e che in un sistema politico normale, assodato che la giustizia in Italia è un malato grave, sarebbe compito del Parlamento approvare un disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della magistratura. La tentazione di disertare le urne la respiriamo tutti.
I repubblicani, prima di analizzare il contenuto, vogliono evidenziare un punto fondamentale: il Referendum deve raggiungere il quorum previsto, pari al numero della metà degli elettori aventi diritto più uno. Il PRI rivolge con forza l’invito a tutti di recarsi alle urne. «A prescindere dalla propria posizione sui diversi quesiti», scrive Romano Fabbri, «è fondamentale partecipare, per garantire la validità della votazione e mandare un forte messaggio alle forze politiche sulla necessità di riformare la giustizia. Il diritto al voto rappresenta una grande conquista democratica e va sempre esercitato, disertare un referendum è rinunciare a un po’ della nostra libertà».
L’indicazione del PRI su tutti i quesiti del referendum è per il Sì. «Ce n’è uno in particolare , che solleva non poche perplessità, il primo quesito, che chiede di abrogare una legge che parte dal presupposto che chi occupa cariche pubbliche abbia doveri superiori a quelli dei normali cittadini. Principio ineccepibile se non fosse che nella maggioranza dei casi in cui sindaci ed amministratori locali sono stati sospesi in attuazione della legge in esame, gli stessi sono risultati dopo molti anni innocenti ed assolti, ma la loro vita politica (ed anche sociale e familiare) è stata gravemente danneggiata. Il quesito tende ad eliminare l’automatismo del provvedimento, e di lasciare al giudice la facoltà di applicare o meno, in caso di condanna, anche l’interdizione dai pubblici uffici. Alla base delle ragioni del Sì anche a questo quesito, c’è il principio della presunzione di innocenza di ogni imputato, sancito dall’articolo 27, co. 2, della Costituzione, che recita: “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”».