Milano è una città complessa. Guai a volerla capire e a mettergli un’etichetta sola. Perché ti perdi il resto. Certo è il cuore dello sviluppo, è la moda, è la finanza, ma è anche stratificazione urbana, è anche degrado sociale, è anche periferia. C’è ancora la Milano da bere, ma c’è soprattutto la Milano da aiutare, che ha perso la lucidità in fondo ad un bicchiere. Ne parliamo con Luca Bernardo, candidato sindaco per il centrodestra».
Questioni complesse vogliono risposte complesse. Non c’è niente di peggio che offrire ricette semplici…
«La città bisogna sentirla tutta. Io giro in vespa. Abito in centro ma per lavoro mi devo spesso recare fuori. La vespa è la metafora dell’ascolto. Perché ti consente di muoverti agevolmente, di spostarti. E se non ascolti, se non ti fai carico dei problemi e delle sensibilità degli altri, allora perdi. Sala sta sbagliando campagna elettorale, secondo me. La sta buttando tutta sui temi nazionali. Cose trite e ritrite che non caratterizzano Milano, oltretutto. Ripete discorsi già fatti per andare sul sicuro. No. Milano ha la sua specificità e i suoi problemi. Soprattutto le periferie. Sono quelle che sono state ormai abbandonate dal centrosinistra. L’italiano povero non interessa».
In cosa si sente diverso da Sala?
«In molte cose. Ma siamo diversi su questo, sul sociale. Io non lascio nessuno indietro. La nostra è una partita comune. Si vince tutti o si perde tutti».
Lei dice: valorizzerò Milano come motore finanziario d’Italia…
«Bisogna sicuramente alzare il livello delle ambizioni. Milano ha bisogno di un’idea di città consapevole del suo ruolo in Italia e nel mondo. Io immagino una città verde, con una fitta rete di infrastrutture fisiche e digitali. Una città sicura che sappia risolvere i conflitti sociali. Il disagio lo si deve comprendere, lo si deve abitare. Credo molto nella funzione educativa: bene i diritti, però ci sono anche i doveri. Milano deve essere aperta e tollerante. La città del merito, se proprio vogliamo usare un slogan. Del resto gli ingredienti per eccellere li ha tutti: ha già un’università di alta qualità, una economia forte, un tessuto industriale diversificato, una posizione geografica favorevole al commercio internazionale, un city airport per la mobilità Point-to-point, un patrimonio immobiliare di assoluto pregio. E ancora qui c’è il più ampio network consolare al mondo: 123 sedi diplomatiche, più che a New York. Siamo insomma il palcoscenico mondiale per il made in Italy»
Durante la XVII legislatura venne depositato un “pacchetto Milano”. Gli avvocati Sebastiano Di Betta, Stefano Loconte, Antonio Tomassini e Bepi Pezzulli predisposero norme rispettivamente su porti franchi e Sez (Zone Economiche Special), incentivi agli investimenti nell’area metropolitana, finanza islamica e istituzione del consorzio per il distretto affari in forma di Gruppo Europeo di Interesse Economico (Gees o Eeig)…
«Occorre fare sistema. Il Pacchetto Milano permetterebbe certo all’amministrazione comunale di attivare tutte le leve competitive. Oggi molto opportunità vengono perse, e non solo da noi, perché abbiamo una scarsa attitudine a fare sistema. Se poi ci mettiamo un certo dilettantismo e un certo pressappochismo nel fare le cose, capiamo perché ci troviamo in queste condizioni. D’altra parte sperimentare e innovare, cioè cambiare, in Italia viene visto con sospetto dallo status quo. Bisogna fare sempre i conti con la conservazione. Del resto siamo il Paese che nel 1995, quando ci sono stati i primi provider che offrivano l’accesso ad internet, la bollò come un’americanata».
Con l’introduzione della Web tax l’Italia può eliminare la Tobin Tax, aumentare le entrate fiscali e rendere più attraente la Borsa di Milano, soprattutto dopo la Brexit…
«I colossi del web, cioè Google, Amazon, Facebook, possono diventare un capitolo importante per riequilibrare fisco e borsa. È una questione ci si deve porre, assieme alla regolamentazione del mercato in Italia per evitare la concorrenza sleale. E certo si deve partire da un dato: il governo Monti ha sbagliato. Erano buone e legittime le premesse, arginare la speculazione finanziaria. Ma l’obiettivo è fallito clamorosamente. Bisognava portare a casa 1 miliardo e 400 milioni, ma abbiamo incassato soltanto 400 milioni».