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La minaccia per l’Europa

Riccardo Bruno di Riccardo Bruno
6 Marzo 2025
in L'editoriale
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Appena lo Zar di tutte le Russie minacciò con due armate il confine polacco, l’imperatore Napoleone mobilitò 500 mila uomini, sulla carta per suscitare impressione, in verità non arrivavano a 400 mila, da tutta Europa. Questa grande armata era composta per un quinto da francesi e per il resto da tedeschi del Nassau, del Wurttemberg, li comandava Davout, bavaresi, sassoni, olandesi, italiani. A Borodino la cavalleria di Murat andò alla carica gridando “viva l’Italia”, non “viva la Francia”. Poi c’erano i polacchi ovviamente, spagnoli e persino trentamila austriaci che comunque rimasero prudentemente al di qua della Beresina. Questa varietà produsse una notevole difficoltà organizzativa, di lingua innanzitutto, ma anche di addestramento. Sotto il profilo esclusivamente militare bisogna considerare l’impresa di arrivare a Mosca senza perdere una sola battaglia e anche durante la ritirata, 500 cacciatori a cavallo comandati da Grouchy, nemmeno uno dei migliori generali dell’Impero, lasciò sul campo, novemila russi che dovevano sbarrargli la strada. Le cifre si conoscono dagli archivi militari sovietici, lo Struve, dal momento che i francesi non ne danno resoconti.

Qual era la forza di un’armata tanto eterogenea? Il comando unico. Senza l’unicità del comando la Grande Armata si sarebbe sbandata già attraversando la Polonia, perché le maggiori perdite le ebbe in estate, all’andata, e non al ritorno, escludendo quelle in combattimento. Rispetto all’epopea napoleonica, il presidente von der Layen ha sicuramente ragione nel volere più armamenti per la comunità europea, non fosse che i soli armamenti non bastano. Rimane indispensabile l’unità del comando. Paradossalmente, è il caso di dire, l’onorevole Schlein, che chiede l’esercito comune, non ha torto, anche se questo esercito deve essere armato.

La lunga pace di cui ha goduto l’Europa ha disabituato il capire di guerre. L’età napoleonica è stata superata da un pezzo e di brillante sul piano militare è rimasto giusto quello che si era imparato da quell’epopea, ad esempio la guerra lampo. Riuscire oggi anche solo a conoscere le armi è un’impresa. In Ucraina ce ne sono due sul campo che fanno la differenza, entrambe americane, il carro Bradley e l’anticarro Javelin. Senza queste Zelensky potrebbe arrendersi immediatamente. I Leopard tedeschi, per non parlare degli Oto Melara italiani, non servono assolutamente a niente. E non è una questione di modernità, perché il Bradley è un carro degli anni ’70 del secolo scorso che l’America ha praticamente dismesso. Uno scarto che si sposa perfettamente con il terreno ucraino, consentendo quella agilità di manovra che i mezzi russi non hanno. I celebrati carri russi, in verità, non ressero il passo nemmeno con quelli tedeschi nel 1943, in spazio aperto. Nel Kursk ne persero tremila contro duecento. In Ucraina, oggi, è andata peggio.

Quando Macron dice che la Russia è una minaccia e che se dovesse vincere in Ucraina non si fermerebbe, in teoria, il presidente francese ha perfettamente ragione. In pratica, la Russia non riesce nemmeno a vincere in Ucraina. Tre anni per conquistare il Donbass e nemmeno interamente, sono un disastro militare senza precedenti nella storia. Purtroppo l’Europa da sola non ha la capacità di deterrenza mostrata dall’Ucraina grazie alle armi americane, Putin potrebbe arrivare a Berlino tranquillamente. Sarebbe già in grado di farlo senza grandi patemi muovendosi da Kaliningrad.

Come riuscire a convincere l’Europa della necessità di un riarmo comune che non sia una spesa inutile? Solo ai tempi di Napoleone si è vista questa capacità, poi ognuno ha fatto per sé e ancora si rischia di farlo. Fino a quando non si troverà un modo politico di costituire un’unità europea e quindi uno status militare indipendente e magari competente, bisogna tenersi stretti gli americani, quali che possano essere le difficoltà di correlazione. La Francia ha ancora un esercito operativo e possiede una deterrenza nucleare anche se sperimentata principalmente a Muroroa, in Polinesia. Le sue capacità di successo bellico autentico, purtroppo, risalgono al 1815. Anche la vittoria della prima guerra mondiale, con buona pace di Petain, si deve esclusivamente all’intervento americano. Bisogna non farsi illusioni. Se si vuole trovare un generale vincente nel 1900, un erede di Bonaparte, quello è Giap, Hanoi. Proprio contro i francesi mostrò il suo meglio. Che lezione.

Domaine de Vizille Musèe de la Révolution Française

Tags: BonaparteMacron
Riccardo Bruno

Riccardo Bruno

Riccardo Bruno si è laureato in Storia della Filosofia presso l'Università di Roma La Sapienza nel 1988. Dal 1987 al 1989 collabora all'Ufficio esteri del PRI diretto dall'onorevole Vittorio Olcese. Dal 1994 è capo ufficio stampa del PRI, dal 1995 giornalista professionista iscritto alla stampa parlamentare. Nel 1999 è capo redattore de La Voce Repubblicana. È stato poi editorialista per il Foglio di Giuliano Ferrara e l'Indipendente di Vittorio Feltri. Dal 2019 è prima vice direttore de La Voce Repubblicana e poi direttore politico

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