Una scelta editoriale della voce repubblicana ha causato un equivoco nel dibattito del consiglio nazionale del 21 settembre, sicuramente per causa nostra. In effetti la frase delle storie romane di Tito Livio “Hic manebimus optime” è stata talmente decontestualizzata da tante di quelle citazioni, D’Annunzio a Fiume, Quintino Sella a via venti Settembre, fino a Pertini e persino Berlusconi, che ha assunto i significati più svariati. L’editoriale della voce del 14 agosto scorso si rifaceva in verità al solo testo originale che contiene due fattori irripetibili, il sacco di Roma, ovvero il momento più tragico della storia romana prima della caduta dell’impero, e la personalità politica stessa di Tito Livio.
L’unica cosa davvero certa di una vicenda consumata 390 anni prima della nascita di Cristo e tre secoli e mezzo prima della nascita di Tito Livio, è che la documentazione storiografica venne distrutta proprio dall’ingresso dei galli a Roma. Per cui il quarto volume di Ab Urbe Condita di Tito Livio è sospetto per lo meno di mitologizzazione. Nel 1920 vi fu chi sostenne che i galli non sarebbero stati sconfitti da Furio Camillo, ma che si ritirarono per rispondere all’aggressione dei veneti. Per cui tutta l’epopea è ampliamente discussa. Non sappiamo nemmeno se davvero è mai esistito il centurione citato da Livio che invita i suoi legionari a restare sul suolo cittadino, mentre il Senato discute di abbandonare la città e viene massacrato. Nessuno nemmeno può asserire con certezza che i romani rimasti sul Campidoglio furono costretti a restarci, piuttosto che aver scelto di resistere. Comunque non fu la loro difesa a fermare Brenno, che venne sconfitto in campo aperto ad Ardea, non dentro le mura di Roma.
Augusto definiva Tito Livio, “un pompeiano”, un seguace di Pompeo, ovvero un nostalgico della Repubblica. L’interpretazione che abbiamo modestamente dato di Tito Livio non era dunque logico geografica, come quella di Quintino Sella che senza nulla voler togliere al suo prestigio di economista, non era anche un profondo analista della storia di Roma, così come quella di D’Annunzio, che adotta sfacciatamente la stessa versione, convinto che Fiume non sarebbe mai caduta. La voce repubblicana ha riprodotto la frase di Livio, come rivolta a difendere la propria posizione nonostante questa fosse disperata, consapevole pienamente di questa disperazione, tutt’altro che ottimale e ciononostante. Non è una sosta compiaciuta, e tantomeno il luogo della vittoria. Invece è un indirizzo ideale che caratterizza la determinazione repubblicana presupposto di un progetto imperiale. Tito Livio sapeva, vivendo più di tre secoli dopo, che Roma avrebbe resistito ed i galli sarebbero stati sconfitti. Per questo mette in bocca ad un centurione quello che voleva sentire da Cesare Augusto, delle cui qualità francamente dubitava.. Questa complessità comporta “Hic manebimus optime”, che certo non consente uno stato d’animo assestato nella pacata tranquillità fiduciosa. I barbari sono alle porte, anzi, in certi esemplari, già dentro casa.
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