Chiunque disponga di una minima sensibilità sociale, fosse anche il rampollo viziato e impertinente di un’importante e facoltosa famiglia, è in grado di capire che i dipendenti delle pulizie di un’azienda pagati meno di sei euro l’ora, necessitano di un aumento per migliorare la loro condizione di vita lavorativa. E nel caso in cui si potesse portare questo salario minimo sopra di tre euro, ancora non sarebbe abbastanza. Possono servire cure mediche e come avviene in determinate realtà, anche un bonus alloggio, c’è in Cina, o un bonus benzina, come in America, o anche un ticket per i pasti come da noi, in Italia. Nel caso in cui i profitti aziendali fossero poi tali da consentire un aumento retributivo più che decoroso, a tutti gli effetti, un intervento legislativo da parte dello Stato, perché mai no, sarebbe un atto di giustizia. Questo inciderebbe sulla ricchezza dei proprietari in maniera proporzionata alle esigenze dei dipendenti. Resterebbe solo da capire come mai un proprietario di un’azienda florida si dimostri così indifferente alle condizioni di vita dei suoi dipendenti al punto che debba intervenire lo Stato. Evidentemente ci sono ancora dei padroni cattivi pronti a sfruttare e magari a raggirare il prossimo, magari a minacciarlo agitando lo spettro della disoccupazione. Per cui uno Stato etico, che ha il senso di cosa sia giusto e cosa no, a cominciare dalla redistribuzione del reddito ecco che interviene per mettere le cose a posto. Non vorremmo solo che il padrone cattivo, licenzi il lavoratore tutelato dalla legge per cercarne uno comunque disposto a proseguire il lavoro alle precedenti condizioni, con la promessa di uscire dalla disoccupazione forzata in cui si trova. Una società che conta almeno sette milioni di disoccupati può trovarne un paio di milioni disposti a turno di lavorare in condizioni impietose, magari solo qualche mese, per guadagnare qualcosa e ripromettersi di riuscire a raggiungere una posizione migliore in un secondo momento più fortunato. Lo sfruttamento è meglio della disoccupazione, e solo chi non conosce nessuno dei due, non comprende la differenza. Quando si pone la questione sociale, abbiamo l’esempio di un grande italiano, di un uomo del Mezzogiorno che conosceva a fondo la realtà del paese e che pure prima di preoccuparsi del salario si preoccupava delle possibilità di occupazione, di un’idea dello sviluppo che renda possibile la stessa redistribuzione. Quest’uomo si chiamava Ugo La Malfa e in tutta la sua vita politica non ha mai seguito o consigliato di seguire, la suggestione del salario minimo.
Nemmeno a farlo apposta, proprio nella giornata di ieri sull’Huffinghton post Italia, si poteva leggere un articolo a firma Giorgio Merlo, collega con un lungo trascorso politico nella democrazia cristiana, poi nell’Ulivo, e che ha recentemente scritto un libro sul Grande Centro. Merlo ricordava a Carlo Calenda che non è certo rifacendo “l’elitario” partito repubblicano, “laicista” e appassionato di diritti civili che si potrebbe ricoprire questo ruolo strategico. Ora senza voler discutere con Merlo l’elitarismo del partito repubblicano e se per questo partito piuttosto, il dovere verso lo Stato precede il diritto dell’individuo e infine il significato del termine “laicista”, vogliamo rassicurarlo sulle possibilità che Calenda possa rifare il partito repubblicano, o magari in second’ordine quello azionista. Nessuna. Quello azionista era un partito militare impegnato armi alla mano quotidianamente contro l’occupazione nazista ed il suo satellite fascista. Calenda che combatte principalmente Renzi, una minoranza come lui stesso, non corre il rischio. Quello repubblicano abbiamo citato l’impostazione di Ugo La Malfa che impedì al partito di essere succube della Dc per trent’anni, l’adesione allo Sme, la Dc non voleva, il dialogo con il Pci, il divorzio. Calenda in meno di due anni è diventato succube di Conte e della Schlein. E questo non perché sostenga il salario minimo, il salario minimo è una questione di civiltà acquisita del sistema capitalistico persino in Cina, ma perché è convinto di poterlo applicare per legge. In un capitalismo buono, composto da dirigenti della Ferrari dove se cambi le gomme ad un auto ti danno mille euro a bullone, funziona. In un capitalismo diffuso, ahinoi, dove appunto c’è chi evade le tasse, chi sfrutta il prossimo suo, chi falsifica i bilanci, chi istiga al suicidio gli amministratori, chi scappa con la cassa, un capitalismo insomma permeato da una primitiva e carnivora avidità, vatti a fidare di cosa succede.
Calenda ha appena replicato stizzito all’onorevole Meloni la quale teme che il salario minimo comporti un livellamento dei salari medi, la stessa tesi della Cisl che poi ha una qualche maggiore dimestichezza sul fronte salariale di Calenda e della Melloni, ma non importa. Calenda ci ha spiegato che il presidente del consiglio parla a vanvera, figurarsi se un’azienda che ha contratti minimi a dodici euro li abbassa ai suoi dipendenti una volta approvato il salario minimo. Certo che no se l’azienda la dirige Calenda. Se invece la dirige vattelapesca, può essere che assuma al salario minimo appena stabilito al posto di quello contrattato, per cui i nuovi lavoratori sarebbero svantaggiati e magari, dove possa, licenzi per rimpiazzi a cui applicare il minimo governativo. Il bello è che questo dipenderebbe dalle caratteristiche stesse dell’azienda e nemmeno dalla volontà dei suoi proprietari. Cose che comprende giusto chi ha lavorato in qualche azienda che non fosse la Ferrari e poi si è ritrovato per strada senza manco la liquidazione.