Negli anni ottanta, c’era questo gioco qui che ci aveva stregato. Si chiamava Impossible Mission. Il segreto del successo era probabilmente la sintesi vocale. A dodici anni sentir parlare il Commodore 64 figurati, ci sembrava un miracolo. Tu eri un agente segreto e dovevi disattivare nientepopodimeno che una bomba atomica. La sopravvivenza dell’umanità tutta dipendeva da te, solo, nella tua cameretta, altro che compiti. E così saltavi da una piattaforma all’altra all’interno di un bunker sotterraneo per recuperare dei pezzi di un mosaico che, ricomposti, avrebbero formato la password di accesso allo studio di questo scienziato pazzo. Oggi la realtà mi appare così. Una complessità che afferri a partire dalla totalità dei pezzi del puzzle. Con un solo pezzo non ci fai nulla, non ti orienti. L’Academy Spadolini del presidente Luigi Tivelli parte da questa convinzione: un solo pezzo di puzzle non può farti accedere ad una comprensione critica del presente. A crederlo si fa populismo da quattro soldi. Invece no, devi prendere ascensori, evitare robot, saltare da un montacarichi ad un altro, come Impossibile Mission, appunto, e solo così, studiando e confrontandoti con acquisizioni strutturate altrui, puoi pensare di fare cultura per davvero.
«Si misura l’intelligenza di un individuo dalla qualità d’incertezze che è capace di sopportare» (Kant)
(videointervista di Giuseppe Punzi)
Ospite della rassegna estiva all’Oasi di Kufra, Davide Giacalone (introdotto dal sindaco di Sabaudia Alberto Mosca e da Alberto Gamberini, del Comitato dei Garanti dell’Academy) che ha presentato il suo ultimo libro, un romanzo, pubblicato da Rubbettino: Anche se Allah non vuole. Il libro in realtà è un pretesto. L’autore è noto, oltre per il suo quotidiano, La Ragione, anche per un impegno decennale nel campo della saggistica. È una storia che cerca di intersecare vari aspetti. «Noi abbiamo un consolidata abitudine che è quella del nostro mondo, quella delle democrazie occidentali, che hanno in comune di essere delle società che si basano su leggi scritte, che possono essere cambiate o confermate, certo, ma il nostro mondo ha proprio questo di bello: che non si ritiene perfetto. In politica i matti sono quelli che vogliono il mondo perfetto, un sistema di popolo, terra, ideologia. Il nostro mondo non è così, ma è un mondo che conosce l’imperfezione. Aspiriamo a qualcosa di meglio, ma sappiamo di non avere ‘la verità’. E questa è una conquista che c’è costata tanto sangue. Qual è il problema che ci ha posto un’immigrazione che è arrivata massicciamente? Non è stato un problema istituzionale, ma di ordine sociale. Non è stato un problema di questa o quella fede, ma tutto sommato nemmeno un problema di colore della pelle. E questa questione sociale ho tentato di raccontare. Osservando una cosa: che il nostro mondo è migliore. Le novità e la modernità vanno deglutite nel tempo. Io sono originario di Marsala. Quando è rimasta vedova, mia nonna ha indossato il lutto, si faceva accompagnare in carrozza in cimitero per portare i fiori a nonno, e poi tornava. È arrivata la televisione, mia nonna s’è fatta la dentiera, e ha cambiato vita. È arrivata a cento anni quasi vivendone un’altra. Non dobbiamo rimproverare alle altre culture quello che siamo stati noi. Dobbiamo anche tener presente che il fenomeno più complicato delle immigrazioni, noi lo scarichiamo nei quartieri più caldi, per così dire, delle nostre città. Non è che li ospitiamo nei posti dove si vive meglio, li scarichiamo nelle periferie che di disagio ne hanno da vendere. Il disagio così lo abbiamo raddoppiato. Ma si deve appunto partire da questo: la nostra società è migliore. Io sono siciliano e da noi non è mai successo che qualcuno è scappato in Marocco, tranne che non fosse seguito dai carabinieri, mentre il contrario è abbastanza frequente. Un altro aspetto che tratto in questo mio racconto è la questione che più che ‘giustizia’ chiamerei di ‘cultura del diritto’. L’avvocato che nel processo corre davanti alle telecamere perché è la sua occasione di parlare, non è un buon avvocato. Quanti ne abbiamo visti così? Perché tu mi devi rappresentare e difendere nel processo, non in televisione. Il problema è che tu famoso ci viventi in televisione, e non nei tribunali».
Le conclusioni sono state affidate a Gianfranco Fini. E l’eleganza oratoria di Fini non va nemmeno ricordata. Lui ha studiato molto l’Islam, si è confrontato, ha chiesto, letto, capito. Perché le culture altre sono lì per risponderti non per necessariamente per invaderti. E per avere risposte, in genere, basta fare domande. Perché la tolleranza è legata alla verità. Se ritieni di averla solo tu, allora è lì che cominciano i problemi. C’è un racconto indù, che Fini non cita ma la questione è quella, che dice che la verità è un elefante al buio. Se nessuno ha mai visto un elefante c’è un modo per farsi un’idea di ‘elefantinità’, farlo entrare e fare fare a tutti i presenti nella stanza buia l’esperienza dell’elefante. Tutti lo toccheranno, nessuno lo potrà vedere. Chi toccherà la proboscide, chi la zampa, chi la coda. Quando l’elefante non ci sarà più, resterà solo un modo per capirlo e per formarsi un concetto preciso: confrontarsi. La verità è data dalle infinite sfumature con cui è stata colta. I problemi cominciano quando ritengo che la mia zampa valga più della tua coda. Cioè che la mia verità sia più vera della tua. Così si finisce per litigare e per farsi la guerra. E l’unico a vincere è lo scettico o il positivista che si innamora del buio, perché sa descriverti solo quello, e lo sa fare bene. Sarà sempre pronto a dirti che non esiste e mai esisterà l’elefante. E nemmeno la sua idea.